sabato 18 dicembre 2021
Ha esordito come poeta e si è affermato come narratore, conservandosi fedele alle sue origini e ai drammi della sua vita. Uno degli scrittori più amati di oggi si racconta in esclusiva
Lo scrittore Daniele Mencarelli

Lo scrittore Daniele Mencarelli - Gigliola Chisté

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Per Daniele Mencarelli il pranzo di Natale non finisce mai. «È uno dei miei sogni ricorrenti – racconta –. Vengo da una famiglia numerosa, ramificata. Una famiglia proletaria, con tutta la dignità che il riferimento alla prole comporta. Da parte di mia madre, in particolare, sono in undici tra sorelle e fratelli. A Natale ci si ritrovava sempre da una di queste zie: la tavolata degli uomini, quella delle donne e poi noi bambini, che venivamo sistemati dove c’era posto. Non solo in soggiorno, ma anche in corridoio, in camera da letto, dappertutto. Per me Natale è un grande banchetto che deborda e che accoglie tutti».

Mencarelli ha un modo singolare di esporsi. Ha iniziato a farlo nelle sue poesie (ora riunite in Tempo circolare, edito da Pequod nel 2019), attraversate da un riverbero autobiografico che ha avuto piena espressione nella trilogia di romanzi La casa degli sguardi, Tutto chiede salvezza (vincitore del premio Strega Giovani) e il recentissimo Sempre tornare. Tutti pubblicati da Mondadori, sono usciti in rapida successione tra il 2018 e il 2021 e descrivono un percorso a ritroso, dall’ingresso nell’età adulta all’adolescenza, lungo il quale Mencarelli non nasconde nulla di sé e delle fragilità con cui si è dovuto misurare. Eppure, quando parla, nella sua voce resta un’ombra di pudore, come se uscire dal riserbo gli costasse ancora fatica. «Per molto tempo – ammette – ho cercato di mascherare le mie origini, adesso invece ne sono orgoglioso. Se nonostante i miei errori non mi sono perduto, lo devo al fatto di essere cresciuto in una famiglia umile anziché in un contesto borghese. Più ci penso, più “umiltà” mi sembra una parola bellissima, perché descrive l’adesione all’humus, alla terra, che è la forma essenziale della realtà. Bella come “prole”, appunto, che si riferisce ai figli, al dono e alla forza che i figli rappresentano».

In casa Daniele è il terzogenito, classe 1974. La sorella è del 1968, il fratello del 1970. Nati a Roma tutti e tre, nella zona al confine tra Ponte Mammolo e San Basilio, a ridosso del carcere di Rebibbia. Sono i luoghi oggi portati alla ribalta dai fumetti di Zerocalcare e che, nei ricordi di Mencarelli, conservano una durezza incontestabile. «In quegli anni la borgata era violenta, il pericolo lo percepiva anche un bambino, ma nello stesso tempo faceva parte della normalità», dice. La svolta avviene nel 1984, con il trasferimento della famiglia nei Castelli Romani, ad Ariccia. All’impiego di conducente dell’Atac il padre affianca l’incarico custode di un magazzino situato sotto la nuova abitazione. «Fino a quel momento – spiega Mencarelli – la mia esistenza si era svolta in piccoli ambienti domestici. Il nostro appartamento, quello della zia che stava lì vicino. Oppure, bene che andasse, l’oratorio. All’improvviso ero immerso in un paesaggio completamente diverso, dominato dalla presenza degli alberi e aperto sulla campagna. Ad Ariccia, la prima notte, non riuscivo a prendere sonno, perché non ero abituato all’abbaiare dei cani. Da lì in poi, è stata tutta un’avventura, una specie di favola arcadica. Un giorno i miei nuovi amici mi mostrarono le cartucce sparate dai cacciatori, assicurandomi che anch’io avrei potuto recuperare cimeli simili nel bosco. Fu come un’iniziazione. Lentamente ho imparato a giocare all’aperto, a esplorare».

A dispetto delle apparenze, Mencarelli non nutre nostalgia per il passato. «Non riesco a condividere il pregiudizio secondo il quale il mondo andrebbe sempre peggio – afferma –. La mia impressione è che gli anni Ottanta siano stati un periodo terribile, nel quale la sensibilità era sistematicamente scambiata per debolezza. Io, purtroppo, sono uscito allo scoperto abbastanza presto. La domanda sul significato dell’esistenza mi accompagna da quando avevo pochi anni, già da bambino mi interrogavo su Dio. Con il tempo, questa inquietudine si è trasformata in disordine interiore, in una smania che non ero in grado di sostenere. A un certo punto, si è prospettata la soluzione tipica di allora: la cura psichiatrica. Solo che nel mio caso quella non era affatto una soluzione».

In una casa con pochi libri («Nella libreria dei miei c’erano le enciclopedie», aggiunge) Mencarelli sente il richiamo delle parole. «Non venivo ostacolato – sottolinea –, solo che per una persona della mia estrazione sociale era impensabile mettersi a fare l’artista. Non ci si campava, tutto qui. Da principio per me è stata una ferita. Quando mi sono accorto che non si risanava, ho capito che dovevo difenderla con orgoglio: era il solo modo per non smarrirmi del tutto, per non rinnegare la mia scrittura».

I lettori di Mencarelli sanno bene quale sia stato il costo di questa scelta. I vagabondaggi per l’Italia descritti in Sempre tornare, il trattamento sanitario obbligatorio che sta al centro di Tutto chiede salvezza (dal romanzo Netflix sta traendo una serie in sette episodi), il riscatto ormai insperato che nella Casa degli sguardi coincide con il lavoro come uomo di fatica nel più grande ospedale pediatrico della Capitale. Anche quest’ultima, del resto, è una storia di Natale. «Il primo Natale del millennio – precisa Mencarelli –. Le poesie di Bambino Gesù furono stampate dalle Tipografie Vaticane come strenna del 2001 per i benefattori istituzionali della struttura. Quei versi li ho scritti io, è vero, ma non l’avrei mai fatto se qualcuno non mi avesse rivolto un gesto di amicizia e di stima. Devo tutto a Francesco Silvano, che all’epoca era il direttore generale del Bambin Gesù. Mi presentai nel suo ufficio con la tuta della cooperativa che mi aveva assunto, gli dissi che ero un poeta e che mi sarebbe piaciuto curare un’antologia di autori internazionali ispirata alla vita dell’ospedale. Ero in uno dei momenti più cupi della mia vita, non avevo qualifiche da spendere, la pena mi si leggeva in faccia. Silvano mi ascoltò, respinse gentilmente la proposta, ma subito rilanciò: “Visto che è un poeta, le scriva lei queste poesie sull’ospedale”. Per la prima volta mi sono sentito accolto nella mia vera natura. Lui si era fidato di me e io non potevo deluderlo. I testi di Bambino Gesù sono stati ultimati in poco più di un mese. Quando ho scritto la poesia della suora mi sono reso conto di entrare in una fase nuova della mia esistenza. Potevo finalmente smettere di inseguire un’immagine fittizia di me stesso, potevo smettere di identificarmi in una persona che non esisteva. Potevo rinascere».

Impossibile dimenticarla, “la poesia della suora”. L’episodio, poi ripreso in una pagina della Casa degli sguardi, avviene nei corridoi dell’ospedale. Mencarelli sta tirando lo straccio sul pavimento e d’improvviso nota la presenza di una donna che tiene in braccio il figlio, dal volto orribilmente sfigurato. Una suora si avvicina e inizia a scherzare con quel bambino, come farebbe con qualsiasi altro bambino. Gli sorride, ne loda la bellezza. Non per pietà, tanto meno per finzione. Agli occhi della suora il piccolo malato irradia lo splendore inestinguibile che Dio ha assegnato a ogni creatura.

Nel caso di Mencarelli è difficile parlare di conversione. L’urgenza del mistero lo incalza da sempre, ma è certo che da qui in poi qualcosa avviene. La consapevolezza si acuisce, i nomi corrispondono meglio alle cose, l’inseguimento di Dio diventa meno affannoso. Mencarelli riprende a studiare, nel 2006 incontra Piera, che diventa sua moglie. Nascono i figli Nicolò e Viola. Intanto, per vent’anni, il poeta lavora in Rai, leggendo e rileggendo le sceneggiature delle fiction da mandare in onda. Continua a comporre versi, quasi involontariamente comincia a scrivere in prosa. «Avevo il desiderio di rivolgermi a un pubblico più ampio rispetto a quello della poesia», confessa. Un esperimento riuscito, grazie al quale oggi Mencarelli si dedica esclusivamente alla scrittura. «La scommessa è sempre la stessa – sostiene –: dare corpo a uno stato di autenticità attraverso l’artificio della lingua. Quello che faccio non ha mai le caratteristiche di una rivincita personale. Ho rispetto per la mia origine e non perdo occasione per testimoniarla, ma mi è chiaro che anche questo non è un valore che vada assolutizzato. Una delle persone che più mi hanno influenzato è stato Idano Valenzi, un calciatore che con Roberto Baggio era stato il più promettente nella Primavera di Arrigo Sacchi. Valenzi veniva dalle borgate di Roma, come me. Irrequieto, si considerava un mezzo zingaro. Non è riuscito a mettere a frutto il suo talento. È morto suicida a quarant’anni, consumato dall’alcolismo, divorato dalla sua stessa origine. Che anche nella scrittura, non è tutto».

A Natale si aspetta sempre un dono. Interrogato in proposito, Mencarelli rovista un po’ nelle tasche, alla ricerca di un appunto preso qualche giorno fa. «Eccolo – conclude –. “L’unico vero sinonimo di Dio è libertà”. Al Dio che nasce non possiamo chiedere altro che renderci liberi, ossia di renderci noi stessi».

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