venerdì 4 settembre 2020
Alberto Casadei propone una visione dell’intero corpus e in particolare del capolavoro (e della sua ricezione visiva nei secoli) come opera d’arte totale
Il celebre ritratto di Dante di Sandro Botticelli (1495)

Il celebre ritratto di Dante di Sandro Botticelli (1495) - -

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Negli anni Settanta fu Tibor Wlassics, influente italianista statunitense di origine ungherese, a formulare l’ipotesi di un Dante non solo “narratore”, ma anche sceneggiatore e addirittura coreografo della Commedia. Sia pure in abbozzo, era l’intuizione del poema come opera d’arte totale, più vicina all’estetica delle installazioni contemporanee che alla fissità di un testo che tra l’altro, rimane impossibile da ricondurre alla volontà definitiva dell’autore. È uno dei paradossi della Commedia, uno dei tanti: di Dante non sopravvive neppure un manoscritto, eppure Dante stesso è considerato l’infallibile per antonomasia, il poeta che non patisce contraddizione. Da qui le interpretazioni più arzigogolate e fantasiose, da qui il rischio che la salvaguardia del dettaglio finisca per compromettere la visione d’insieme. Professore di Letteratura italiana all’Università di Pisa, Alberto Casadei reagisce a questa eventualità con un saggio piccolo e densissimo, che si presenta semplicemente come Dante (il Saggiatore, pagine 196, euro 18,00) e che in effetti propone una «storia avventurosa della Divina Commedia dalla selva oscura alla realtà aumentata ». Colpisce il ricorso all’aggettivo “avventurosa”, in primo luogo, ma per alcuni lettori potrebbe essere ancora più difficile da accettare l’accenno alle tecnologie digitali, con il loro apparato di schermi e simulazioni. Eppure, a ben pensarci, il poeta mette in atto qualcosa di molto simile, specie nel Paradiso, rinunciando alle consuete coordinate spazio– temporali e proponendo un racconto che anticipa in modo sorprendente le teorie della fisica quantistica, come già sosteneva Horia–Roman Patapievici nell’indimenticabile Gli occhi di Beatrice.

Giustamente Casadei insiste sul fatto che la Divina Commedia (la preferenza per la versione estesa del titolo è ben argomentata dallo studioso) sia da intendere come un’opera che costruisce le proprie regole a mano a mano che viene composta. E le rispetta, certamente, ma non in modo meccanico, non in ossequio a uno schema imposto dall’esterno. La terzina è semmai un dispositivo mobilissimo nella sua semplicità, un sistema di versi e di rime capace di contenere la stessa vastità di sollecitazioni che di volta in volta si presenta alla mente del poeta. Il Dante di Casadei non è propriamente una biografia, anche se fa ricorso alla scansione cronologica, riuscendo così a smentire uno luoghi comuni più ricorrenti, quello per cui il progetto del poema si presenterebbe subito completo: come un libro da scrivere, insomma, e non come un’esperienza viva che si arricchisce di quello che, nel frattempo, accade nella vita dell’autore. In linea di massima, Casadei lavora molto a sfrondare. Lo fa anche per quanto riguarda gli scritti di Dante, dei quali propone un canone abbastanza ristretto. Di dubbia attribuzione sono, a suo avviso, non soltanto il Fiore, sulla cui autenticità era invece disposto a garantire Gianfranco Contini, ma anche la Questio de acqua et terrae perfino la celebre lettera a Cangrande della Scala, ovvero i documenti dell’esilio veronese sui quali si è appuntata di recente, e con esiti del tutto diversi, l’attenzione di Luca Azzetta e di altri filologi danteschi. Non si tratta di una polemica erudita. Casadei è interessato non tanto all’esclusione, quanto alla valorizzazione di quello che rimane: di quello, cioè, che è indiscutibilmente dantesco.

Dalle rime alla Vita nova (prima, straordinaria innovazione strutturale di un Dante non ancora trentenne), dal disegno incompiuto del Convivio e del De vulgari eloquentia fino alla presa di posizione politica della Monarchia, fortissima è l’attenzione al contesto in cui ciascuna opera viene concepita, spesso negli interstizi del poema che intanto si fa sempre più complesso. Se già in Inferno e Purgatorio Dante si segnala come «il primo narratore moderno» («a lui – annota Casadei – interessano i destini, […] ma soprattutto vuole costruire dei destini rappresentativi»), è con il Paradiso che la sua «creatività come poeta e come intellettuale cristiano» si dispiega in pienezza, con esiti che reggono il confronto più «con i grandi romanzi e film di fantascienza che non con le banalissime visioni ultraterrene del XIII e XIV secolo». Si tratta di uno dei passaggi più volutamente provocatori del ragionamento di Casadei, che anche nel resto del libro dedica molta attenzione alla ricezione popolare del poema, privilegiando una linea anglosassone che ha tra i suoi massimi rappresentanti William Blake fra Sette e Ottocento e, nei nostri anni l’artista Tom Phillips, che ha contribuito tra l’altro a una ambiziosa trasposizione televisiva della Divina Commedia. Quella suggerita da Casadei è una rassegna ampia e fatalmente incompleta (si sente la mancanza, per esempio, al Cantiere Dante del ravennate Teatro delle Albe), ma che ha l’obiettivo principale di risvegliare «l’intenzione del lettore», la sua capacità di «comprendere contemporaneamente » le molteplici suggestioni presenti nel poema. «Se mai verrà scritta una nuova opera universale come il capolavoro dantesco – conclude Casadei –, dovrà riuscire a rappresentare tutti quegli stati che sono adesso alla base della nostra concezione del mondo, da quelli noti a quelli inconsci e addirittura oscuri: e forse occorrerà un’opera d’arte interamente multimediale sin dalla sua ideazione creativa». Nell’attesa possiamo tornare a Dante, ancora una volta. Indietro di sette secoli, che è come dire avanti, molto avanti nel futuro.

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