domenica 13 settembre 2020
Il secondo canto del Purgatorio è una terra sconosciuta dove si cerca la strada e il coraggio per intraprendere il cammino di correzione: insieme, e cantando
Domenico di Michelino, “La Divina Commedia illumina Firenze”, 1465, affresco. Firenze, Santa Maria del Fiore

Domenico di Michelino, “La Divina Commedia illumina Firenze”, 1465, affresco. Firenze, Santa Maria del Fiore - -

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Ravenna domenica ha ricordato solennemente la morte di Dante Alighieri, avvenuta nella notte fra il 13 e il 14 settembre 1321; una riflessione a partire dal II canto del Purgatorio, è stata tenuta dal cardinale Josè Tolentino de Mendonça: ne proponiamo qui una parte.

Come ogni non italiano, mi soffermo sempre di nuovo con ammirata meraviglia davanti a questo monumento della cultura italiana e, come ogni lettore, mi ritrovo piccolo e fragile davanti a tanta altezza, ma mai estraneo e indifferente, perché il miracolo della poesia dantesca è precisamente quello di far sentire a casa chiunque le vada incontro con animo aperto e recettivo, di portare ognuno di noi a riconoscersi nella umanità ferita e redenta che essa raffigura, con una verità e una profondità che ha pochi raffronti nella letteratura mondiale. Le pagine che intendo leggere con voi, che troviamo nel secondo canto della seconda cantica, ci collocano in una fase di transizione, nel passaggio perplesso e guardingo tra un ciclo appena concluso (la traversata infernale del male privo di redenzione) e l’inizio di uno nuovo (la purgatoriale ricostruzione del bene attraverso l’espiazione purificatrice). Dante e Virgilio, appena risaliti dalla voragine infernale, si aggirano nella riva dell’isola del Purgatorio per trovare l’ingresso della montagna penitenziale. La novità della situazione, la mancanza di direzioni tracciate, li sconcerta, li ritarda, li confonde. L’Antipurgatorio, spazio di somma indefinizione e spaesamento, cattura chi lo attraversa in uno stato di inerzia, di impasse: «Noi eravam lunghesso mare ancora, / come gente che pensa a suo cammino, /che va col cuore e col corpo dimora » ( Purgatorio II, 10–12). Come accade a tutti coloro che non sanno che strada prendere, il cuore dice ai due viandanti che devono avanzare, ma l’incertezza sul da farsi li frena: restano bloccati. Ben presto, scoprono di non essere soli in questo stato di indecisione. Traghettato da un angelo enigmatico e silenzioso, sbarca infatti sulla riva un gruppo di anime né beate né penitenti, anch’esse in cerca dell’accesso al percorso di purificazione e non meno disorientate dei due poeti: «La turba che rimase lì, selvaggia / parea del loco, rimirando intorno / come colui che nove cose assaggia» (52–54).

Questa turba, agitata dalla novità di quello che sta sperimentando (è selvaggia del loco, assaggia cose nuove), si comporta come ogni viaggiatore privo di mappa, che chiede informazioni al primo sconosciuto in cui si imbatte. Quando ci sentiamo persi, è difficile trovare chi ci possa guidare: « Quando la nova gente alzò la fronte / ver’ noi, dicendo a noi: / “Se voi sapete, / mostratene la via di gire al monte”. / E Virgilio rispuose: “ Voi credete / forse che siamo esperti d’esto loco; / ma noi siam peregrin come voi siete”» (58–63). Come tutta la geografia della Commedia, l’Antipurgatorio non raffigura un luogo ma uno stato, nello specifico la condizione di essere nuovi venuti, di trovarci in una situazione che ci coglie completamente impreparati, in cui le nostre coordinate usuali risultano insufficienti e fallibili, spazzate via da una crisi acuta, che abbiamo appena superato, ma incombe ancora su di noi: «Dianzi venimmo, innanzi a voi un poco, / per altra via, che fu sì aspra e forte, / che lo salire omai ne parrà gioco» (64–66). Nel leggere questi versi, potente e irresistibile prende corpo, agli occhi di noi lettori, il parallelo tra la scena descritta da Dante e il momento storico che stiamo vivendo. Anche noi, in questo singolare settembre 2020, ormai oltre il giro di boa di un anno eccezionalmente doloroso e denso di domande ancora senza risposta (appena usciti da una via aspra e forte che ci ha profondamente provati come individui e come comunità), ci troviamo in una sorta di Antipurgatorio; anche noi assaggiamo cose nuove, come la turba di anime incrociatasi con Dante e Virgilio, e nessuno se la sente di dirsi “esperto del loco” in cui la pandemia ci ha scaraventato, cogliendoci del tutto alla sprovvista, aprendo scenari inediti, squassando certezze, consuetudini che sembravano incrollabili per quanto erano ovvie, la pigra routine della normalità.

Ci guardiamo intorno, spaesati e perplessi, e non riconosciamo l’estate in questa stagione strana che sta per finire. Non sappiamo che autunno ci aspetta, se di isolamento o di presenza ritrovata. Ci sentiamo bloccati, in questa terra incognita che pure vogliamo attraversare il più rapidamente possibile, guardandoci attorno senza sapere esattamente che strada prendere per uscirne. Nessuna persona sensata si azzarda ancora a disegnare mappe e battezzare percorsi. Gli esperti si scoprono inesperti in questa fase forzosamente transitoria in cui siamo tutti peregrini, appena arrivati e desiderosi di venir via quanto prima, se solo si sapesse come… Una cosa sola, però, è certa nell’incertezza totale del momento: la crisi del coronavirus, che fu sì aspra e forte, ci ha trasportato in un mondo sconosciuto, niente sarà più come prima, e la novità è tanto grande che esitiamo, sapendo che sarà comunque una strada di faticosa reinvenzione, di ridefinizione purificatrice. Se vogliamo un futuro per la nostra società, dobbiamo affrontare il purgatorio della messa in questione di errori, eccessi ed omissioni. In quel momento straordinario di preghiera che papa Francesco ha celebrato da solo sul Sagrato della Basilica di San Pietro, in marzo scorso, ci ha ricordato: «È caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine… Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai Tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato». Dobbiamo ora accettare il doloroso esercizio delle “correzioni”, come ha coraggiosamente proposto, recentemente, un autore americano.

Ovviamente, resistiamo. Ci attardiamo, rinviando, più o meno coscientemente, il momento di prendere congedo dal mondo che ci lasciamo alle spalle per addentrarci in quello che segue. Come gente che pensa a suo cammino, / che va col cuore e col corpo dimora, ragioniamo all’infinito sul da farsi, ma tergiversiamo, aggrappandoci al dejà vu. Il pensiero della purificazione purgatoriale è intimidatorio, ed è stato estirpato dalla nostra autocoscienza di moderni, illusoriamente sostituito per forme secolarizzate di auto perfezionamento, che finiscono per rinforzare il narcisismo e la solitudine. Il Purgatorio, secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica, ci ricorda che siamo «imperfettamente purificati» e che dobbiamo sottoporci «a una purificazione, al fine di ottenere la santità necessaria per entrare nella gioia del cielo». Anche nel piano storico dobbiamo intraprendere il difficile cammino purgatoriale della correzione del nostro modo di vivere, delle nostre abitudini, dell’inerzia in cui ci siamo adagiati troppo a lungo, lasciando che la terra corresse incontro al collasso ecologico, le differenze economiche si approfondissero in modo iniquo, il tessuto comunitario si degradasse nella sterile cecità dell’individualismo. Ne saremo capaci? Questa domanda pesa su di noi come una grande sfida, segnata dalla consapevolezza che quello che abbiamo davanti è un cammino che non si percorre da soli. Richiede un impegno comune, una sintonia corale: «“Isräel de Aegypto” / cantavan tutti insieme ad una voce” (46–48). Solo cantando a una sola voce si esce dall’Egitto del male per ritrovare la libertà di una convivenza di giustizia e di pace, per raggiungere la terra promessa di una società in cui la dignità di ognuno fiorisce nella messa in comune di risorse e opportunità, in cui la solidarietà ha la meglio sulla competizione, l’attenzione reciproca sull’indifferenza, il rispetto e la fiducia sulla violenza e la diffidenza.

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