martedì 3 maggio 2022
Concentrarsi sulle qualità estetiche o materiali ha spinto a sottovalutare la bellezza di gesti antichi e attività pratiche. La riflessione di Michael Taussig nel nuovo libro di Castelli e La Cecla
Un donna cerca dell’oro nel fiume Timbiqui, in Colombia

Un donna cerca dell’oro nel fiume Timbiqui, in Colombia - -

COMMENTA E CONDIVIDI

Negli ultimi decenni l’incontro tra arte e antropologia è diventato sempre più intenso e i due campi si sono ritrovati a condividere metodi e pratiche. Questo incontro ha contribuito a rivoluzionare ambiti e sistemi che sembravano scontati. La storica dell’arte Anna Castelli e l’antropologo Franco La Cecla lo raccontano in Scambiarsi le arti. Arte & Antropologia (Bompiani, pagine 192, euro 16,00), di cui anticipiamo parti dell’introduzione di Michael Taussig.

Michael Taussig

Michael Taussig - -


In un moderno museo d’arte, un vaso o un tessuto realizzato in tempi antichi o in una cosiddetta società primitiva potrebbero essere esposti come “arte”, mentre nella società che li ha originati sono oggetti d’uso. Questo pone domande interessanti, persino dilemmi, su cosa sia arte. Inoltre, molta “arte primitiva” – come le pitture del corpo, sulla sabbia, nelle caverne, le scarificazioni, la danza, i canti, la musica – esiste in funzione dei rituali ed è effimera, non facilmente trasformabile in “art commodities”. Questa caratteristica effimera spesso sembra essere l’essenza di tali attività e oggetti. Non sono fatti per durare. (...) Potremmo dire che, in molti casi, tale arte – come viene chiamata oggi – è destinata a essere effimera e è pensata per esserlo, come i fuochi d’artificio? Qui interviene Georges Bataille con il suo concetto di dépense, sprecare per il gusto di farlo. Anche la musica, il canto, la poesia e il racconto orale lo sono. L’essere effimeri è ciò che li rende affascinanti e potenti. Al contrario, che miseri fantasmi pallidi sono le loro registrazioni su supporti elettronici. I canti sciamanici che conosco, nel Sudovest della Colombia, talvolta vengono descritti dagli stessi sciamani come intonati dagli spiriti della pianta psicotropa che lo sciamano, avendone fatto uso, ascolta e copia o da cui è ispirato. Inoltre, i canti sembrano essere più che suoni, paiono possedere una vita o una forza vitale propria. Potrebbero essere animali o sembrare animali; un uccello che dall’alto si tuffa e volteggia, un pesce che guizza nell’acqua bassa, o un tessuto membranoso che ci avvolge come nell’utero. (...) È impossibile pensare alla scena dell’arte contemporanea in termini di effimero perché l’oggetto d’arte, per esempio quello venduto in un’asta di Christie’s, deve materialmente durare come proprietà privata e tale proprietà ha una lunga e complicata storia istituzionale. (...) E che cosa dire degli oggetti che non hanno nulla a che fare con i rituali, come i vasi e la stoffa intrecciata? Prendete la freccia che viene fabbricata nel grande film di Juan Downey del 1979, The Laughing Alligator, girato durante i sette mesi in cui Downey, sua moglie Marilys e la figliastra Titi vissero con gli yanomami nell’Amazzonia venezuelana. Vediamo gente dondolarsi lentamente in amache di corda, un oggetto estremamente utilitaristico. Le donne dipingono volti e corpi, gli sciamani sono sdraiati sulla schiena e tamburellano il terreno per combattere gli spiriti nemici e, a un certo punto, il film si sofferma su un giovane che inserisce delle piume all’estremità della freccia che sta fabbricando. Stringe l’asta sotto l’ascella. La freccia e il corpo del suo creatore sono una cosa sola. È seduto su uno sgabello basso con le gambe distese, un po’ reclinato all’indietro, nudo tranne che per un piccolo lembo di tessuto, paradigma dell’equilibrio e del rilassamento. Fa roteare l’asta. Riflettendo la luce, le piume diventano nere, poi blu e poi di nuovo nere. Vedere questa scena mozza il fiato. Sicuramente è arte non meno di quanto lo sia la quotidianità, la fabbricazione della freccia non meno di quanto lo sia il modo in cui viene filmata; quello che voglio dire è che anche le attività e le cose più pratiche, pragmatiche e legate alla sussistenza dalla vita hanno la loro arte. Un altro esempio che mi viene in mente è il gesto che fanno le donne afro-colombiane quando cercano l’oro nel corso superiore del fiume Timbiqui, sulla costa dell’Oceano Pacifico della Colombia. In piedi nel fiume, a volte con un pesante sasso legato alla schiena nel caso in cui debbano immergersi in profondità, entrano nelle acque vorticose per raccogliere dal fondo ghiaia e sabbia che mettono in una “padella” di legno a forma di disco. Ponendo le mani da una parte e dall’altra del bordo, fanno roteare con un gesto ipnotico la padella, chiamata batea, e fanno fuoriuscire gradualmente il suo contenuto, lasciando una macchia nera al centro della batea dove si potrebbe trovare, se si è molto fortunati, un granello d’oro. Una donna, spesso con un bambino piccolo, può passare cinque o sei ore a fare questo gesto sotto al sole crudele. L’incantevole bellezza del movimento rotatorio prende una vita propria. Questo gesto, il suo immediato contesto, per me si qualifica come arte, l’arte speciale del muovere la sabbia, la ghiaia e l’acqua vorticosa di un fiume che si lega a una storia di schiavitù. È significativo che nulla di tutto ciò appaia, o che nemmeno vi si rifletta, nel famoso Museo dell’Oro di Bogotá che, invece, è dedicato agli oggetti d’oro precolombiani. In termini occidentali, solo quest’ultima è “arte”. In poche parole, non c’è spazio nei musei d’arte per attività pratiche come cercare l’oro o costruire una freccia. O se c’è, a tali attività non viene concessa l’etichetta di “arte”; se trovano posto, sarà invece nei musei etnografici con tutto il carapace coloniale che ciò implica. Inoltre, queste “attività pratiche”, che sono anche “artistiche”, presentano un profondo problema filosofico legato al significato della parola “arte”. Nel suo dizionario, Keywords, Raymond Williams, professore di teatro a Cambridge, scrive una breve storia sociale della parola “arte” e della sua diffusione come arte nel XIX secolo. Egli traccia l’impatto che la rivoluzione industriale ha avuto sull’artigiano a partire dal XVIII secolo che è risultato in una biforcazione, da un lato la nascita delle belle arti e dall’altro l’artigiano. Quest’ultimo capace di «lavoro manuale specializzato» senza «carattere intellettuale» o «potere immaginativo» o «scopi creativi». Che dolore si prova a leggere queste parole! Quindi, costruire un attrezzo a mano con materiali locali o cercare l’oro nel fiume non è considerato degno dell’etichetta “arte” o “belle arti”. (...) Il punto è che una parte vitale dell’essere umano risiede nella produzione di cose necessarie alla sopravvivenza, ma che in una moderna economia di mercato, con la sua intricata divisione del lavoro, nessuno sa fare molto. Siamo artless (come si dice in inglese). L’orinatoio di Duchamp, come gli altri suoi readymade, rende bene questa idea. In altre parole, tutto dipende da come viene presentata la cosiddetta arte primitiva, le maschere africane sono “ in” come Les Demoiselles d’Avignondi Picasso, fare frecce e cercare l’oro no. Questo ci fa capire che la presentazione dell’arte, così come l’arte stessa, è una performance orchestrata culturalmente, anche quando – anzi specialmente quando – viene appesa a una parete bianca e raramente corredata di didascalie, perché l’idea è che, come un oracolo, è destinata a “parlare da sola” in comunicazione silenziosa ma profonda con lo spettatore. È sorprendente, davvero, questa presunzione; strappare l’arte dal rituale o dalla prassi (prendendo in prestito il termine dal giovane Marx), per non parlare dell’attaccarla a un muro. (...) La verità è che tutti sono confusi. “Che cosa è arte” è una domanda a cui nessuno può rispondere. “Fai uscire la mosca dalla bottiglia” direbbe Wittgenstein. Basta porsi domande a cui non si può dare risposta. Ma non possiamo smettere. E poi c’è la storia che Bataille racconta a proposito del museo del Louvre come intimamente connesso al regicidio, all’omicidio, tanto che, nei giorni successivi alla rivoluzione, la borghesia poteva passeggiare nelle gallerie la domenica pomeriggio e purificarsi, come se fosse in una chiesa. «Al cuore della bellezza » riflette Hollier, «c’è un omicidio, un sacrificio, un’uccisione (non c’è bellezza senza sangue)». L’origine del museo, dice Bataille, «sarebbe così strettamente legata alla ghigliottina ». Nel toccare un nervo idiosincratico surrealista, Bataille ci sorprende con l’idea che ciò che oggi chiamiamo “arte” nei musei abbia un legame sotterraneo con l’uccisione della sovranità e quindi con il sacro.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: