venerdì 19 novembre 2021
A Palazzo Reale una rassegna indaga la sparizione del testimone che ci lega alla realtà. L’artificiale ha preso il comando e la critica tratta le opere come sintomi sociali anziché forme trascendenti
Due sculture di Zharko Basheski: “Auroritratto” (2010, figura seduta) e “Out of...” (2018)

Due sculture di Zharko Basheski: “Auroritratto” (2010, figura seduta) e “Out of...” (2018) - .

COMMENTA E CONDIVIDI

Quando oltre vent’anni fa Francesca Alfano Miglietti organizzò al Pac di Milano la mostra Rosso vivo – una sorta di teatro sacrificale dell’arte contemporanea, dove il sangue aveva una ragione più che simbolica –, si capivano due cose abbastanza importanti sullo stato della realtà: s’imponeva la condizione di capro espiatorio dell’artista, che si offriva come testimone di un mondo “post umano”, vale a dire un mondo dove l’artificiale chiedeva prepotentemente di aprirsi spazi nei quali, dopo l’icona cinematografica di Blade Runner, il rapporto fra arte e realtà veniva ineluttabilmente a dipendere dalla mentalità cyborg. Di seguito a questa premessa, la mostra Rosso vivo ci metteva di fronte a un fatto compiuto: la svolta antropologica dell’arte che da simbolo decadeva a sintomo del reale.

Se ancora nell’Arte povera e nella Transavanguardia fra tradizione e nuove concettualità il valore simbolico resisteva nella sua permanenza di linguaggio-forma, ora queste due componenti basilari nello statuto artistico mutano, anche col diffondersi dei video e delle installazioni, la loro funzione espressiva. Sono, ormai, inevitabilmente sottomessi al dettato sociologico della comunicazione. All’epoca della mostra del Pac, il sangue, simbolo della vita e del sacrificio, quindi metafora carica di valori emotivi, poteva ancora ricordare il periodo precedente delle performance (Gina Pane, per esempio) o dei rituali orgiastici nei quali si sacrificavano animali suscitando scandalo negli animalisti (azionismo viennese).

Oggi siamo ben oltre, anche se sulla scena sociale domina un perbenismo puritano talvolta quanto mai violento; ma una mostra come Corpus Domini. Dal corpo glorioso alle rovine dell’anima – allestita a Palazzo Reale, catalogo Marsilio – è la prova di quanto l’arte contemporanea stia inseguendo una chimera. L’arte deve tornare sui suoi passi svincolandosi dal circolo vizioso della comunicazione. Dico questo, non perché Alfano Miglietti non possieda gli strumenti concettuali per tenere a freno la bestia, ma proprio perché la bestia si è liberata di qualsiasi freno e limite “realistico”, e fa dell’arte un prodotto surrogato. Surrogato, perché la testimonianza del sintomo non può più bastare senza che l’arte stessa diventi manifesto sociale, parli di buoni sentimenti e rivendicazioni collettive – fino alla curiosa disquisizione in catalogo del sociologo Franco Berardi sulla crisi della fertilità, il crollo degli spermatozoi, il declino della capacità sessuale. Tema indubbiamente urgente ma, forse, bisognava ricordare anche i tentativi sempre più insistenti di creare l’uomo in laboratorio senza affidarsi alla riproduzione sessuale (così Marc Quinn nel 2008 realizzò la scultura Thomas Beatie che raffigura l’uomo incinto).

Robert Gober, “Bird’s Nest” (2018-19)

Robert Gober, “Bird’s Nest” (2018-19) - .

Anche questa, a suo modo, è la “sparizione” del corpo, di cui da decenni si parla. Boltanski nel 2015 si affidò a una montagna di stracci (ma all’epoca di Rosso vivo aveva riempito a Bologna una stanza colma fino al soffitto di abiti usati che emanavano il classico cattivo odore del panni sporchi, ma che per “assenza” parlavano delle centinaia di corpi che li avevano indossati). Così Fabio Mauri nel 1993 aveva eretto alla Biennale di Venezia il Muro occidentale o Del Pianto con le valigie di chi aveva varcato terre e mari testimoniando attraverso quelle “scatole” storie di esodi e di abbandoni. Avevamo già assistito alla prima guerra del Golfo, cioè all’inizio delle guerre televisive, quelle ridotte a una immagine. Tre anni dopo Mauri aveva costruito un altro muro di valigie metalliche, Cina Asia Nuova, con al centro un televisore, ma l’empatia provata a Venezia era ormai lontana anni luce. Così, a Milano, oggi il muro Rebibbia del 2006 è una denuncia che perde gran parte del suo slancio espressivo, anzi ci appare fin troppo estetizzante.

Ma se vogliamo dire la potenza dell’“assenza” nell’evocare la “presenza” corporea di un uomo dobbiamo constatare che, già cinquant’anni fa, con la geniale Risata continua. D’io (1971) Gino De Dominicis agitò un fantasma che, oggi, quando lo riascoltiamo ci sembra ancora accanto a noi, sopra, davanti o dietro di noi, ovunque. Si potrebbe giocare con l’artista e dire che lì il “corpo c’è, d’io c’è». Per Alfano Miglietti il passaggio avviene dalla Body art all’Iperrealismo americano (quindi anni Sessanta e Settanta) verso una successiva biforcazione del corpo in “spettacolare” (cioè bello, sano, gloriosamente pompato dalla pubblicità) e “invisibile”. Ma ecco che quando la mostra era già in fieri, è sopraggiunta la pandemia (che, ricordiamolo oggi, si è portata via Lea Vergine, curatrice della rassegna con Alfano Miglietti). Si potrebbe dire che da questa catastrofe si sia generato un “corpo pandemico”, un corpo che, sia ben chiaro, non è nello specifico quello dei morti e dei malati colpiti dal virus, ma quello di una società che sembra non saper più affrontare un dramma così vasto perché non ha più una idea precisa della vita e della morte: nel discorso ha quasi sempre maggiore rilevanza la specie (nella sua variante di “società”) dell’individuo, perché si sottomette il concetto di salute pubblica all’idea di salute collettiva. Ma la salute pubblica non è quella collettiva, bensì quella che lo Stato tutela agendo sull’elemento base della società stessa: il socius, nella sua qualità anche di persona, che viene prima di ogni specie e di ogni comunità. E che è un corpo vivente.

Così il corpo non è solo concettuale o filosofico, è concreto nella fragilità che lo espone all’invisibile virus, ovvero respirando e toccando, quindi ancora attraverso la corporeità, che per quanto sempre più negata è tornata a farsi sentire nei rituali drammatici che dominano questo nostro tempo. Gli indici che Alfano Miglietti individua in alcune opere hanno la concretezza del simbolo: oggetti, valigie, vestiti, scarpe, immagini, le stesse ombre (come nei bellissimi video di popoli in cammino dell’israeliana Michal Rovner, le cui opere, come si dice in catalogo, «passano continuamente dal poetico al politico»). Sono indici – per usare un vocabolo mutuato dall’inglese, di moda ma poco bello – di resilienza. I modi di un reale che vuole resistere all’artificiale. Che cerca di esaltare la porosità fisica della vita.

Ma anche questa coppia dialettica oggi ha le sue asimmetrie: l’artificiale – scrive la curatrice – è l’«allucinante somiglianza del reale a se stesso»; è una mise en abyme che può richiamare un concetto di Sedlmayr, quello di «preponderanza del finto». Il rapporto fra reale e artificiale oggi non è di opposizione, non è nemmeno esclusione, anzi possiamo dire che la sua logica è inclusiva a tutto vantaggio del secondo, e si estende con uno schema biologico: l’artificiale entra nel reale, come un virus, lo colonizza, a distanza di tempo ne prende il dominio e lo riduce ai margini. Ma questo spazio che conserva un minimo quid di realtà, è soltanto la giustificazione che la cultura dell’artificiale usa per poter affermare che esiste ancora il vecchio modello antropologico, mentre si tratta di un superamento perché, come da alcuni decenni stanno sostenendo i teorici dell’Intelligenza artificiale, si può applicare a essa il concetto di “persona”, in quanto entità creata che entra in relazione con altre intelligenze (spesso soltanto artificiali). È una frontiera anglosassone, dove dire “persona” ha sfumature ben diverse dalle nostre, tuttavia viviamo in un mondo globalizzato dove la superlingua detta l’orizzonte del discorso.

Se ancora in Blade Runner esisteva lo strano ibrido chiamato «lavori in carne» ( cyborg dotati di mente artificiale e materia umana, che si ribellano al loro destino) – un parto dell’immaginazione che applicava il modello del golem e di Frankenstein alle nuove tecnologie –; oggi la carne invece è il problema da rimuovere alla radice come possibilità per lo sviluppo umano. Se – come ricorda il cardinale Ravasi nel catalogo – per san Paolo è la carne ( sarx) che porta il marchio del peccato, l’uomo che vuole liberarsi della carne intesa come ultimo baluardo di una origine naturale, forse cerca di negare (o si illude di farlo) il peccato, che non è sinonimo di errore o di colpa, ma il nome che lega il nostro esistere alla morte dopo la cacciata dal paradiso terrestre. Si può, ovviamente, disquisire su questo Corpus Domini, il corpo di un uomo che da un lato si separa dal creato e dall’altro ambisce a porsi al di sopra di esso come se si fosse emancipato dal suo stesso limite. Dalla sua finitudine. Quella che ancora vediamo nell’uomo raccolto in forma fetale dello scultore Antony Gormley, diviso in 14 pezzi, che si copre le orecchie con le mani. Per non ascoltare il sibilo del serpente.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: