sabato 26 febbraio 2022
È la maschera di Bergamo, ma anche molto altro: risale alla Commedia dell’arte e abita le cantine dell'Ade. Un saggio di Oldoni ne insegue le misteriose trame
Enrico Sacchetti, “Morte e Gloria di Arlecchino”

Enrico Sacchetti, “Morte e Gloria di Arlecchino” - / Galleria del Laocoonte

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Arlecchino, lo sanno (o lo sapevano tutti, in Italia) è la maschera di Bergamo nella tradizione folklorica e nella 'Commedia dell’Arte': è compagno inseparabile di Brighella, un’altra maschera tradizionale, ma non si può proprio dire che si amino. Si fanno scherzi spesso crudeli, talora fra loro finisce a bastonate. Entrambi servitori ghiotti e infedeli, ladruncoli, in pratica mezzi briganti, sono in realtà 'fratelli- coltelli'. Ma rispetto a Brighella, che fin dal nome richiama giocosamente il suo carattere (è un attaccabrighe), Arlecchino ha un connotato dark in più: la sua maschera nera e il suo lungo deforme naso rinviano a qualcosa di demoniaco. La sua veste a losanghe multicolori è un ricordo degli abiti policromi, tatti rammendi e toppe, dei giullari medievali: e alcune fonti ci dicono che lo stesso Francesco d’Assisi, 'giullare di Dio', amava rammendare il suo povero saio con pezze di stoffe colorate, magari brandelli ricchissimi fatti di fili d’oro e d’argento e provenienti da stracci principeschi. Lo stesso nome, Arlecchino, è un enigma inquietante. L’etimologia meno incerta lo rinvia all’onomastica demoniaca del folklore francese, che conosce Herlequis ed Hellequins, entrambi nomi abbastanza simili all’Alichino che Dante annovera nella grottesca coorte dei demoni di Malebolge.

Ma se accettiamo la pericolosa scommessa mitoantropologica propostaci da canti celtici o da saghe germaniche o addirittura da poemi epici caucasici si può andare oltre, all’indietro: e ci s’imbatte allora in un Herr der Heeren, un 'Signore delle Armate' dai misteriosi tratti guerrieri e notturni, personaggio di sacralità pagana fatalmente scivolato dal Pantheon barbarico all’Inferno dei cristiani. E nel folklore europeo sono sopravvissuti a lungo, venendo da molto lontano – già Tacito ne fa cenno –, i complessi mitici del Wilde Jagd, la 'Caccia Feroce', e del Wilde Heere, il Feralis Exercitus, l’'Armata Selvaggia'. Vi allude anche Dante nella Divina Commedia descrivendo l’incubo tremendo del conte Ugolino; e ne tratta con apparente levità scherzosa ma anche con grande erudizione il Boccaccio, nelle novelle dedicate rispettivamente allo sciocco medico Simone e al cortese Nastagio degli Onesti. Entrambe le novelle boccacciane sono state studiate da quanti hanno indagato sull’elaborazione del mito del sabba stregonico e sulle sue antiche radici: è forse pleonastico, ma vale comunque la pena di richiamare il grande studio di Carlo Ginzburg, Storia notturna. Si ricorderà però al riguardo, che quel libro fu, sino dal suo apparire, oggetto di accanite, sovente ingenerose discussioni.

Chi allora dubitò del metodo e dell’uso di certe fonti da parte di Ginzburg, potrebbe aver oggi occasione di ricredersi affrontando la non facile ma fecondissima lettura di un grosso libro di Massimo Oldoni, La famiglia di Arlecchino. Il demonio prima della maschera (Donzelli, pagine 326, euro 35). Intendiamoci: il libro di Ginzburg e quello di Oldoni sono molto diversi fra loro per taglio, argomento e tematica. Il secondo dei due studiosi conosce bene l’opera del primo, ma si guarda bene dal dipenderne. Le scuole concettuali e metodologiche alle quali, sia pure con molta originalità, ciascuno dei due potrebbe dichiarare di rifarsi sono fra loro alquanto lontane. Eppure, temi e problemi che in entrambi i saggi s’inseguono e si annodano hanno l’effetto di una reciproca, magari per nulla voluta, conferma.

Massimo Oldoni è una figura di studioso tanto rigorosa quanto originale. Ha sfiorato il modello dell’intellettuale che s’impone ai media divenendo quasi una star allorché, qualche decennio fa, ta- le modello ancora non esisteva a parte eccezioni come Umberto Eco. È stato e resta eccellente musicista, suonatore di strumenti e cantante, poeta e romanziere: e ha al suo attivo alcune performance nel campo dello spettacolo. Al tempo stesso però è estremamente sobrio, quasi ispido, nel concedersi al pubblico: mano a mano che il tipo dello studioso-influencer trionfava, Massimo Oldoni si ritraeva dalla scena mediatica in una sorta di solitudine ironica e quasi sdegnosa, selezionando sempre più rigorosamente oggetti di studio e amicizie, scegliendo puntigliosamente editori esclusivi.

Pino Pascali, “Arlecchino”, 1964

Pino Pascali, “Arlecchino”, 1964 - / Galleria del Laocoonte

Una trentina di anni or sono Claudio Leonardi mi confermò qualcosa del quale io stesso mi ero già accorto: che cioè Massimo Oldoni è uno dei massimi e più attenti conoscitori al mondo di fonti medievali, specie di quelle letterarie in latino. I suoi contributi sull’immaginario dei secoli IX-XIV, sulle culture folkloriche e orali, sulla 'storia della fantasia', costituiscono ormai dei veri e propri classici della nostra letteratura storico-filologica. In questo libro Oldoni ricostruisce pazientemente, tassello per tassello, il più incredibile – e fondamentale – mito del medioevo europeo: la «madre di tutte le storie» terribili e affascinanti, quella che talora ci perseguita negli incubi e che trionfa sui grandi e sui piccoli schermi di questa nostra società angosciata che ama straparlare di pace e di ragione ma che sembra divertirsi solo dinanzi ai racconti di orrore, di sangue e di mistero. La storia più antica del mondo, dal racconto biblico di Aw e della maga di Endor alla nekya di Ulisse a colloquio con le ombre degli eroi. Nel nostro medioevo, si raccontava spesso e secondo varie versioni dell’incontro tra i vivi e «l’esercito dei morti». Qua e là, tale tema riemerge anche nelle nostre cronache e nelle nostre 'mitologie urbane'. Chissà che la lettura di questo libro non sia, per qualcuno di noi, anche un buon esercizio psicoterapeutico.

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