venerdì 10 settembre 2021
Alla Fondation Gianadda la mostra sul pittore morto a 45 anni nel 1894 e riscoperto un secolo dopo, per il centenario. Una visione controversa della modernità. Amava la botanica e il canottaggio
Gustave Caillebotte, “La Caserne de la Pépinière” (1878 circa)

Gustave Caillebotte, “La Caserne de la Pépinière” (1878 circa) - .

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Edgar Degas era ricco di famiglia. Rampollo di una famiglia di banchieri, perse tutta la sua ricchezza quando un crack in borsa portò sul lastrico la famiglia e lui fu costretto a coprire coi suoi averi il buco finanziario. Degas che, per temperamento era aristocratico e amava le cose belle, senza però ostentarle, da quel giorno capì di dover sopravvivere facendo l’unico mestiere che conosceva bene: la pittura. Gustave Caillebotte era benestante di famiglia. Nel 1874 il padre morì improvvisamente e gli lasciò un discreto patrimonio. Gustave aveva 26 ani e non ebbe mai bisogno di lavorare, per così dire. Ingegnere nautico, con studi in legge, amante dei giardini e botanico, filatelico – lui e il fratello avevano raccolto una collezione di timbri straordinaria che vendettero a un collezionista londinese a beneficio della Corona d’Inghilterra, facendoci su un bel po’ di denaro – canottiere e competitore in gare lungo la Senna su barche che aveva lui stesso costruito, quindi pittore, con una sottile vena critica verso il proprio tempo, infine collezionista e generoso mecenate (sostenne molti suoi colleghi acquistandone le opere).

Nessuno dei due artisti, che furono anche amici (Caillebotte morì precocemente nel 1894, a 46 anni, Degas a 83 in piena Grande Guerra), può dirsi propriamente un impressionista. Degas non amava la pittura all’aperto («Troppe correnti d’aria nel plein air ») e Caillebotte probabilmente nutriva una ribellione verso quella idea della modernità che Baudelaire, nel Pittore della vita moderna, aveva letto come regno del «transeunte, del fuggitivo, del contingente », un mondo instabile e fluttuante affermato dalla pittura atmosferica e dai vapori della Ville Lumière.

Gustave Caillebotte fotografato nel 1892 dal fratello Martial su place du Caroussel

Gustave Caillebotte fotografato nel 1892 dal fratello Martial su place du Caroussel - .

Mi sono spesso domandato perché Baudelaire avesse scelto come rappresentante pittorico della vita moderna quel Constantin Guys che, visto oggi, ci appare senza vero talento anche se non mediocre. Qualcuno ha scritto che il pittore della vita moderna sarebbe Degas, ma se si considera la definizione di Baudelaire, è falso. Degas vive le luci di Parigi come una sorta di stimolante di cui, però, svela tutta l’ipocrisia borghese (il suo regno è l’atelier, non la natura). Qualcuno, anche in questa mostra che la Fondazione Pierre Gianadda dedica a Caillebotte definendolo «impressionniste et moderne» (fino al 21 novembre), tira in ballo il pensiero di Baudelaire. Come scrive James Rubin nel catalogo «Caillebotte sembra voler dimostrare il contrario». Sì perché se Baudelaire vede Parigi come il grembo del cambiamento continuo, dell’instabilità, Caillebotte la ritrae coi suoi edifici monumentali, con i lunghi boulevard nati dalla riforma urbanistica del Barone Haussmann che cancellò i quartieri medioevali, fatiscenti, malodoranti, ma che testimoniavano una Parigi oggi fantasma, per far spazio a larghi viali che avrebbero consentito alla polizia e all’esercito di reprimere meglio le rivolte popolari rendendo inattive le barricate (strumento fondamentale per i moti rivoluzionari; ma nella guerra civile seguita alla sconfitta di Sedan, i comunardi sostituirono le barricate col fuoco e molti edifici crollarono sotto le fiamme).

Quando Caillebotte dipinge la nuova Parigi, sembra mancare già ogni traccia, un indizio, un segno, di quello che era accaduto pochi anni prima insaguinando la Capitale. Quindi la Parigi che ci racconta è quella della nuova moda, nella quale gli impressionisti si gettano cogliendo una sorta di evanescenza della vita che fugge e fluttua come l’ectoplasma in uno spazio che non ha più il realismo delle cose che pesano, consistenti, dure: la luce, la sua potenza elettromorfa, sembra dissolvere tutto fra vapori, nuances, riverberi dove l’ombra perde la sua “nerezza” e riaffiora nell’impressionismo col colore rubato alle cose che riflette. Nadar sulla sua mongolfiera fotografa Parigi dall’alto; Caillebotte ne rende le forme asettiche ma contraddittorie in quadri come Le pont dell’Europe del 1876, che enfatizza il traliccio ferroviario con le sue imponenti strutture, oppure ne esalta la dialettica spaziale in Rue de Paris, temp de pluie del 1877 (non esposto): due quadri su cui giustamente si sofferma in catalogo un saggio a sei mani di C. Ghez, P. Galifi della Bagliva e B. Bothereau, evocando la categoria, oggi molto in voga, della distopia, sia pure con il correttivo dello sguardo ironico, come malessere indotto dalla riorganizzazione haussmanniana. Il che autorizza gli autori del saggio a porre queste opere sotto l’egida del canular, scherzo o beffa; il ponte ferroviario costruito nel 1868 venne infatti molto criticato dalla stampa dell’epoca per il suo aggressivo ammasso di ferraglia che, secondo alcuni, costituirebbe un anticipo ingegneristico della Tour Eiffel.

Gustave Caillebotte, “I piallatori di parquet, studio” (1875)

Gustave Caillebotte, “I piallatori di parquet, studio” (1875) - .

Esponendo entrambi i dipinti alla mostra del 1877, sostengono gli autori, forse Caillebotte pensava che qualche spettatore avrebbe colto la sua ironia; resta però da capire quanto lo stesso pittore investisse le due opere di questo sentimento critico. La cosa davvero interessante, riguardo al primo dei due dipinti, quello del ponte, è la parete che è stata allestita in mostra con l’opera e tre studi: visti sotto il profilo stilistico, essi hanno una varietà di registri che possono persino far pensare a quattro diverse mani, come d’après. È una sensazione che si prova anche davanti a quello che forse è il quadro che più identifica Caillebotte nella memoria collettiva: I piallatori di parquet, opera del 1875, in deposito al Museo d’Orsay, accanto alla quale si vede uno studio preparatorio anche più suggestivo.

Il quadro del d’Orsay in basso a destra presenta una gigantesca firma con data che, a mio parere, dà troppo nell’occhio, e l’arte della firma, spesso, denota un grande artista: Caillebotte, come spiega in catalogo Gilles Chardeau, non firmava tutte le opere e la sua morte quasi improvvisa costrinse il fratello e Renoir, che ne era il curatore testamentario, a imitarne la firma, pensando che sarebbe stato difficile attribuire i quadri all’artista se, col tempo, fosse finito in penombra. E in effetti così accadde: la riscoperta di Caillebotte è cosa recente, risale al 1994, quando, per il centenario della sua morte, la storica Anne Distel, coadiuvata da vari specialisti, riportò l’attenzione su di lui. Prima se ne erano occupati soltanto Marie Berhaut con due mostre nel 1947 e nel 1951, e nel 1987 lo storico americano e curatore al MoMA Kirk Varnedoe.

Da quel momento è esplosa la fama di Caillebotte, che in Italia però non ha ancora attecchito. Le ragioni si possono trovare in una sorta d’insicurezza che si percepisce quando il pittore deve fare scelte più radicali, stato d’animo forse dovuto alla tranquillità con cui visse la sua infanzia e all’agiatezza che ebbe da adulto. Non fu costretto, insomma, a lottare. La guerra franco-prussiana (da cui tornò, a differenza di Bazille che vi morì, mentre Monet e Pissarro pensarono bene di scappare a Londra in attesa che passasse la buriana, al contrario di Manet e Degas che si arruolarono volontari nella guardia nazionale), dovette spingerlo ad amare intensamente la vita; dopo aver conosciuto De Nittis e Degas, e poi gli altri moderni, abbracciò di slancio la pittura raccogliendo la lezione di alcuni di loro: nei ritratti, per esempio, di Manet e Fantin-Latour, come rivela l’incidenza del nero.

Ma poi la sua passione per il giardinaggio e il canottaggio lo spinsero verso la natura e la sua bellezza: la simbiosi con lo sguardo e una specie di identificazione lirica e sensoriale col mondo floreale, oppure la dimensione agonistica dello sport nautico, lo vedono nella condizione, in definitiva classica, dell’artista che tende a correggere con la sua opera l’imperfezione della natura. Caillebotte riesce meglio dove non si ostina a finire l’opera, dove segue l’impulso che lo porta ad abbozzare o lo guida nella sprezzatura, così per esempio nel notevole “dettaglio” Vista attraverso un balcone del 1880 o nelle Orchidee del 1893, o in un dipinto surreale dove raffigura i panni stesi ad asciugare nella sua casa di campagna al Petit Gennevilliers, che hanno la strana apparenza di forme aerostatiche sospese nel vuoto come dischi volanti.

La sua vita si concluse presto. Pissarro al suo funerale dirà: «è una persona che possiamo rimpiangere, è stato buono e generoso e, ciò che non guasta, un pittore di talento»; e Monet, aggiunse qualcosa di simile: «aveva tanti doni naturali quanto buoni sentimenti e, quando l’abbiamo perso, era appena all’inizio della sua carriera ». Entrambi, con un fondo di perfidia forse, dicono che Caillebotte fu un pittore di talento, ma i suoi meriti maggiori gli vengono dai buoni sentimenti. Come se parlassero di un amatore che si dilettava di pittura.

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