venerdì 14 gennaio 2022
Quello del grande critico per Ungaretti fu una sorta di innamoramento letterario: lo riteneva colui che meglio interpretava l’istinto metafisico della poesia. Due volumi raccolgono scritti e lettere
Carlo Bo

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I saggi Ungaretti, un poeta da vivere (vol. I: Scritti su Giuseppe Ungaretti 1939-2001; vol. II: Lettere, immagini, documenti 1940-1965; Raffaelli, pagine 300 + 96, euro 25,00 + 12,00), così acuti e intensi, di Carlo Bo e l’esemplare apparato esegetico e storico che ha intessuto Eleonora Conti intorno a essi (per i “Quaderni della Fondazione Carlo e Marise Bo”), ci restituiscono alla «sostanza» del nostro rapporto con Ungaretti: la «somma esatta del nostro debito », che continua. Rileggere ora i saggi del primo degli interpreti (congiunti alle lettere di Ungaretti), riuniti in una lucida fedeltà all’essenza della poesia, obbliga a ripensare all’eredità del poeta secondo una linea ermeneutica che rimane al centro di ogni interpretazione critica: «E infine nessuno come Ungaretti ci è sembrato sempre così vicino a conquistare il metro della poesia, a salvarsi – se fosse possibile – in un dominio eterno, incorruttibile: chi è stato altrettanto condannato, perduto in un’ambizione così pura, immediata e violenta?» ( Davanti a Ungaretti). Carlo Bo ha, senza esitazione, nella sua attitudine critica, sempre privilegiato la linea “metafisica” che, nella poesia del Novecento italiano, trova in Ungaretti il più assetato interprete: «Il metafisico fa premio sul fisico puro e il metafisico si proponeva di registrare il senso dell’impurità del sole: “il sole quando sorge è stupenda bellezza, ma non sorge puro, non rivela un mondo puro, ma un mondo che documenta in sé rovina, il lungo castigo che è la storia; e tutte le difficoltà che nel nostro essere va intrecciando il muoversi della storia nella serie dei secoli”» ( Un poeta da vivere, da “Omaggio a Giuseppe Ungaretti” a cura e con Introduzione di Mario Luzi, “L’Approdo Letterario”, n. s., a. XVIII, n. 57, marzo 1972, poi in Letteratura come vita). Come risponde Ungaretti a questo esigente postulato? La lettera di riscontro al saggio di Carlo Bo è tra le sue più intense confessioni di poetica, ed è uno degli apporti più preziosi che questi volumi ci offrono per la comprensione profonda della creazione ungarettiana: «Se riguardo oggi, con una coscienza più chiara, alle cose passate, quello sforzo che ho fatto per rendere la mia espressione esteticamente più convincente, non m’appare più se non come un chiarimento di coscienza, e che aveva di mira non il bello, poiché la bellezza è un attributo implicito, ma la necessità di sapere con qualche certezza, e di essere vero nelle mie povere parole. So bene che un uomo non può testimoniare che per sé, e per i suoi tempi; ma la sua sofferenza può suggerirgli le ragioni causali dell’universale infermità della natura, e il fine dell’espiazione, e la speranza d’una pura bellezza risuscita per dolorante volontà» (Ungaretti, Lettera a Carlo Bo, da Roma, del 21/1/1946; in risposta al saggio di Carlo Bo, Ancora Un- garetti, in “Lettere ed Arti. Rassegna Mensile”, a. II, n. 1, gennaio 1946). I presenti volumi sono il più importante contributo di questi anni per ricondurre lo studio della poesia del Novecento al suo asse principale, in quella centralità della “vertigine pascaliana” che da Racine a Baudelaire ha nutrito i classici, sino al XIX secolo, e che Ungaretti rinnova con parole analoghe a quelle che già scandivano, ansiose, l’Hymne à la Pitié: «Qu’importe le péché, s’il ne mène / à la pureté» (Ungaretti, Hymne à la Pitié, autotraduzione edita su “La Nouvelle Revue Française”, 1928). Carlo Bo è stato non solo uno dei primi e più importanti critici di Ungaretti ( Dimora della poesia, 1939), ma anche il suo più fedele “custode”, propiziando il Convegno (Urbino, 3-6 ottobre 1979) che celebrò la memoria dei 10 anni dalla scomparsa del poeta (gli Atti furono infatti pubblicati, in due nutriti tomi, a Urbino, 4Venti, 1981), con un memorabile discorso di Carlo Bo stesso, Rettore dell’Università, che sottolineava l’incessante «lavoro dell’anima» che Ungaretti aveva offerto alla poesia del Novecento. In fondo, per tutte le generazioni dei lettori del XX secolo, Ungaretti è stato quello che Carlo Bo ha definito, per i settant’anni del poeta, in un ritratto che ancora di accompagna: «Ci sono dei continenti, dei mondi in letteratura che non sono legati a una stagione ma esigono una vita, un’attenzione infinita; ora Ungaretti ha avuto proprio questa importanza: è chiaro che in questa situazione rendere omaggio, dare testimonianza finiscono per essere degli atti di superbia, una sopraffazione. L’Ungaretti di oggi resta per me com’era per me nel Trenta, il poeta che ci insegna la parola e ci rapisce» (C. Bo, Il nostro debito verso Ungaretti. Lettera a Sandro Bonsanti, “Letteratura”, [n.s.], a. V, nn. 3536, novembre-dicembre 1958).

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