domenica 19 dicembre 2021
La Biblioteca Nationale di Parigi lo celebra per il bicentenario della nascita e in Italia escono due libri di Calasso e Raboni. La malinconia del poeta e il mistero delle cose
Charles Baudelaire (1821-1867) in una fotografia del 1860 circa

Charles Baudelaire (1821-1867) in una fotografia del 1860 circa - Alinari

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Antoine Compagnon ricorda, nel catalogo che accompagna la mostra che la Bibliothèque Nationale de France a Parigi dedica a Baudelaire fino al 13 novembre in occasione del bicentenario della nascita, che quando il poeta muore il 31 agosto 1867, a Parigi si stava tenendo l’Esposizione Universale. La gente è attratta dal progresso e dal commercio. Come viatico a quell’edizione Victor Hugo aveva scritto un saggio dove dichiarava Parigi capitale culturale dell’Europa e città della pace, erede di Atene, Roma e Costantinopoli. Tre anni dopo, Parigi verrò martellata dagli obici prussiani e la Francia dopo Sedan chiederà la resa; i francesi che rifiutano l’imperatore Napoleone III e lo accusano di pusillanimità insorgono con la Comune, inizia così una guerra civile che finirà in un bagno di sangue e la sconfitta dei comunardi. La città della pace e della cultura fu dunque un sogno borghese morto all’alba. Baudelaire era stato l’urticante cantore di tutto questo fin da quando uscì la prima edizione di Les fleurs du mal nel 1857: l’opera verrà condannata dal tribunale per oscenità e offesa alla morale, infliggendo una multa di 300 franchi al poeta, sempre squattrinato, e l’obbligo di emendare la raccolta dei testi giudicati più esecrabili, sei in tutto. Proust, quando ormai Baudelaire era passato a miglior vita e il giudizio su di lui era nel frattempo cambiato fino a rovesciarsi e a renderlo il capostipite della nuova poesia, scriverà che Baudelaire non fu né decadente né romantico, anzi, «scriveva come Racine» e infatti la sua opera incarna «il più perfetto classicismo ». Un altro critico, più vicino a noi, Gaëtan Picon, che fu direttore del “Mercure de France”, scrisse invece che «la poesia di Baudelaire è la poesia dell’Ecce homo». Ma questo, per così dire, è quasi all’opposto del divano di Proust. Forse la bellezza della poesia baudelairiana può ricadere dentro la classicità – bastano a confermarlo i celebri versi «Là, tout n’est qu’ordre et beauté / Luxe, calme et volupté » di L’invitation au voyage –, eppure qualcosa deraglia nel giudizio postumo fin da quando – come ricorda Compagnon – nel 1887, pubblicati gli scritti intimi e, in particolare, Mon coeur mis à nu, l’immagine s’ingigantisce in forza delle enormi contraddizioni che in lui convivono e che lo ergono a profeta disilluso della modernità: in quelle pagine si leggono «aforismi amari contro la società, la donna, la natura» e le lettere a Mme Aupick, sua madre, «rivelano l’uomo sofferente e fragile» dietro l’intransigente osservatore dei costumi e della borghesia parigina. La città diventa un correlativo oggettivo della madre e del rapporto che aveva con lei. Caroline era poco più che ventenne quando partorì Charles, e il padre, allora sessantenne, si era risposato con lei dopo essere rimasto vedovo, ma morì quando il bambino aveva solo sei anni. Per il figlio – scrive Compagnon – i due anni successivi furono tra i più felici perché la mamma lo ricopriva di amore e lui la ricambiava, sentendo di averla tutta per sé. Ma quando Caroline decise di risposarsi con un militare che diventerà poi generale, Jacques Aupick, per Charles fu un trauma insanabile. La sua amarezza, che è cronica infelicità, viene ricompresa nella mostra sotto il titolo La modernité mélancolique. È la condizione perenne di Baudelaire, che si alimenta anche delle frequenti offese che la vita gli infligge: continui problemi economici, una certa fragilità fisica aggravata anche dalla grama sopravvivenza, la condanna della sua poesia, una predisposizione atrabiliare che non può togliersi di dosso e che, in effetti, lo rende ipersensibile verso il mistero delle cose. Scomparso qualche mese fa, da poco è uscito un libretto di Roberto Calasso che si aggiunge ai vari suoi titoli usciti nella Piccola Biblioteca Adelphi lungo il 2021. Questo è dedicato al poeta francese, a cui aveva già intestato un libro corposo, La Folie Baudelaire che forse non era fra i suoi più riusciti di una serie che Calasso stava componendo come un’unica grande opera. Ciò che si trova solo in Baudelaire (pagine 138, euro 14,00) è un frammento di frammenti, pensieri, talvolta una manciata di pagine, suddivisi in tre parti, che hanno la forma quasi di marginalia all’opera già pubblicata, tenuti insieme da un fil rougeche sembra seguire le idiosincrasie del poeta. Baudelaire – scrive Calasso – aveva come riferimenti saggistici Diderot e Stendhal, ma questi erano, se così si può dire, “negatori del mistero” mentre Baudelaire cercava la sovranatura. E la trovò, per esempio, nel colore di Delacroix. Ma fin da subito, pur scrivendo magnifici resoconti del Salon, il poeta lo definisce «genere tedioso» – e lo può capire chi prova lo stesso sentimento, ormai da parecchio tempo, visitando grandi mostre collettive come la Biennale di Venezia –, dove, riassume Calasso, il tedio saliva dalle «vaste plaghe bituminose che si aprivano ogni primavera nelle sale del Louvre». Baudelaire sentiva che l’Ottocento «aveva perso per sempre quel respiro vasto, sulla misura dei cieli, che per l’ultima volta si era mostrato con Tiepolo». L’unica dottrina di Baudelaire era «l’analogia universale». E su questo, dice Calasso, va proiettata la sua tensione alle immagini. Le trattava come se parlassero, perché senza la loro voce «il mondo sarebbe afono». E non è un caso che Calasso sottolinei con gran forza l’importanza del saggio sul “pittore della vita moderna”, ovvero Constantin Guys, mentre molti hanno criticato la scelta di Baudelaire di prendere come riferimento un buon illustratore, ma non grande pittore. Calasso giustifica questa scelta proprio con la passione incondizionata del poeta verso le immagini. Qui siamo forse oltre l’ecfrasi di longhiana memoria. Un superamento che corrisponde a quanto scrive in una lettera del 1859, mentre sta preparando la seconda edizione dei Fleurs, dove sostituirà i sei testi condannati coi Tableaux parisiens: «superato i limiti assegnati alla poesia»; sono talmente potenti che li paragona a «una esplosione di gas in una vetreria». Compagnon sostiene che in queste due edizioni dei Fleurs prendono forma due estetiche baudelariane: quella del poeta che sale sulle barricate e chiede venga fucilato il generale Aupick, il suo patrigno e quello melanconico, «physiquement dépolitique» come si dichiara in una lettera del 1862. Nel 1977 Giovanni Raboni, nell’introduzione a un saggio sul poeta per gli Oscar Mondadori – ora ripubblicata da Einaudi in Baudelaire (e Flaubert). La carne si fa parola (pagine 116, euro 15,00) – parlava di una strategia baudelairiana che «consiste nella mossa di aggredire l’avversario – cioè la città, splendore e miseria, sedimentazione e simbolo della nascente e già decrepita società industriale – non per contestarlo ma, in un certo senso, per appropriarsene, cioè per farne oggetto e materia di espressione artistica ». Si potrebbe pensare a una visione kitsch, dove il male diventa materia non su cui rigenerare il bene, ma per essere da esso consumato nella sua quantità di orrore. Temendo la condanna del 1857 Baudelaire aveva scritto infatti al suo avvocato: «Il libro deve essere giudicato nel suo insieme: solo così si può coglierne la terribile moralità». La terribile moralità che soltanto la poesia pura può sopportare (compreso il kitsch) Henri Bremond, nel 1926, a proposito di poesia pura sottolineava che Poe, Baudelaire, Mallarmé, Valery non erano dei pericolosi innovatori, come si diceva, poiché venivano pure loro da una tradizione che ha le sue tracce nell’Umanesimo italiano. È la poesia capace di «grazia segreta, charmes impercettibili» che vanno dritto al cuore e sono, come i misteri, ineffabili. A sua volta Valéry scrisse a proposito dei Fleurs: «tutto è incanto, musica, sensualità astratta e potente...» Il sottinteso “erotico” di questa ineffabilità è costante nella poesia di Baudelaire, è l’amore-odio per il corpo femminile, corpo materno, grembo e loculo, come la Parigi da cui fugge a Bruxelles perché non sopporta più la società dell’epoca: ma poi dovrà arrendersi al fatto – scrisse Raboni – che il Belgio era «una caricatura della Francia borghese». E da lì rientrerà in patria, grazie all’impegno della madre, malato, ormai privo di parola e alla fine della sua esistenza. Il 2 settembre 1867, sotto un cielo tempestoso e triste, uno smilzo corteo ne segue la salma fino al cimitero di Montparnasse.

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