sabato 23 ottobre 2021
La mostra di Jean Clair alle Scuderie del Quirinale attraversa i gironi infernali per approdare a un'ultima stanza che ricompone la visione, restituisce prospettiva e speranza
Particolare da “Inferno” (1510-1520 circa) di Anonimo portoghese

Particolare da “Inferno” (1510-1520 circa) di Anonimo portoghese - Roma, Scuderie del Quirinale, "Inferni"

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Il viaggio che questi “Inferni” esposti alle Scuderie del Quirinale – di cui ha parlato ieri su queste colonne Maurizio Cecchetti – ci propongono è amplissimo, nel tempo, nel mito, in Dante, nella storia umana nei dissidi della contemporaneità, nei baluginii – anche – della speranza. Si parte dalla acuta parabola proposta, in apertura del magnifico catalogo Electa, da Jean Clair, Da Saturno a Satana, per giungere alla Completezza delle stelle, 2001, opera di Anselm Kiefer. Come il Saturno che divora i suoi figli (si pensi al Goya del Prado, 1819-23), così il Lucifero di Dante nella ghiaccia divora e stritola i dannati il parallelo ci fa ritornare a un celebre passo di sant’Agostino che osserva: «Hanno affermato, dice Varrone, che Saturno era solito divorare le cose da lui nate perché i semi tornano là da dove sono nati [...] Infine dice che da alcuni gli sono abitualmente immolati fanciulli, come dai Punici, e da altri anche persone adulte, come dai Galli, perché la razza umana è il migliore dei semi. Su questa efferata superstizione non occorre spendere altre parole» ( De civitate Dei, VII, 19). Poco prima aveva ricordato «il mito veramente disumano e mostruoso di Saturno che avrebbe divorato i propri figli. Alcuni lo interpretano nel senso che la lunghezza di tempo, che è significato dal concetto di Saturno, distrugge tutto ciò che produce» ( ibid., VI, 8). In questo senso, la visione di Jean Clair e l’impronta ch’egli e Laura Bossi danno alla mostra è profondamente agostiana: “Umani inferni” ha titolo una sezione poiché non solo il tempo divora ciò che esso crea, ma anche l’umanità è carnefice di se stessa, come voleva Baudelaire nell’Héautontimorouménos: «Je suis la plaie et le couteau! / Je suis le soufflet et la joue! / Je suis les membres et la roue, / Et la victime et le bourreau! // Je suis de mon coeur le vampire». Inferno è la fabbrica moderna, inferno i reclusori di Piranesi e gli asili psichiatrici, inferno le guerre: con attestazioni severe, provenienti dal Musée de l’Armée. Italo Calvino stesso concludeva, a conclusione delle Città invisibili: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiano stando insieme», appunto “L’inferno sotto casa” evocato da Laura Bossi (“L’inferno, una topografia del male”). Il XIX e il XX secolo hanno accentuato la visione del vivere come processione di morti, quale mette in scena T. S. Eliot: «Città irreale, / Sotto la nebbia bruna di un’alba invernale, / Una folla fluiva sul London Bridge, tanti, / Ch’io non avrei creduto che morte tanti n’avessi disfatti. / Sospiri, brevi e radi, venivano esalati, / E ognuno fissava gli occhi davanti ai suoi piedi. / Fluivano su per la collina e giù per King William Street, / Fin dove Saint Mary Woolnoth segnava le ore / Con un suono morto all’ultimo tocco delle nove» (“La sepoltura dei morti”, da La Terra desolata, 1922). E tuttavia, accanto a questi inferni e alle loro porte (mirabile La porta dell’Inferno, modello in gesso, qui esposto, di Rodin, e altre “bocche dell’Inferno” come quella di Bomarzo domata tuttavia dal pastore e dalla sua greggia che serenamente vi posa intenti semplicemente alle opere e ai giorni) serpeggia anche la coscienza dell’immensa solitudine del Male che il percorso ricorda con le parole di Victor Hugo: «Moi seul je reste affreux ! Hélas, rien n’est immonde. / Moi seul, je suis la honte et la tache du monde. / Ma laideur, vague effroi des astres soucieux, / Perce à travers ma nuit et va salir les cieux» ( La Fin de Satan, 1886: Hors de la terre, III). Serpeggia, ancor più, l’angoscia e il bisogno di uscire dalla cupa voragine infera, come ricorda il bel saggio di Matteo Lafranconi: “Uscire dall’Inferno: umanità, verità, assoluto”. E infatti l’ultima stanza ci porta a «riveder le stelle», con Dante, con le poesie di Leopardi, Rilke, Ungaretti, con le due opere rivelatrici di Anselm Kiefer: il libro di piombo del Dies irae («Liber scriptus proferetur, / in quo totum continetur, / unde Mundus iudicetur») ora aperto e colmo di stelle e l’uomo stesso che alla terra aderisce, ma solo per meglio contemplare le Stelle cadenti, opera del 1995. Quell’ultimo verso dell’Inferno di Dante: «E quindi uscimmo a riveder le stelle» ( Inf., XXXIV, 139) libera da tutto ciò che di nefando precede nel poema. D’un tratto la volta stellata ricompone la visione, restituisce prospettiva e speranza, come magnificamente chiosa uno dei più fini commentatori antichi della Commedia, Guglielmo Maramauro (1369-73): «E Virgilio e lui usciron per quello e tornoron a riveder le stelle a l’altro emisperio: e questo intendi che esso, con la ragione umana, uscì de la selva de li vitii, la qual è tenebrosa, e per la gratia de Dio tornò a la illuminatione intelectuale a riveder le stelle, idest le virtude, sì como te figurarà al primo capitulo del Purgatorio, mettendo sé essere passato a l’altro emisperio. E vidde le stelle, le quale esso figura per le quatro virtù morali, idest iusti[ti]a, forteza, prudentia e temperanza. E cossì se deve intendere: che per la ragione umana, la qual esso figura in Virgilio, pervenne a cognitione de le quatro virtute, le quale esso figura in Catone. E per le dicte quatro virtù pervenne a cognitione de le tre teologiche». Ha ragione dunque Mario De Simoni nel sottolineare il carattere di «tensione etica» che anima la Mostra: bisogna attraversare l’Inferno perché infine «L’uomo veda sopra i dolori, la fame, / la guerra, e sopra i re, gli dei, e la follia, / il vulcano della gioia erompere nella sua lava immensa» (Hugo, La Fin de Satan).

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