venerdì 2 maggio 2014
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Potrà sembrare una banalità, ma la Grande Guerra è stata il primo conflitto in cui non è stato più possibile nascondere l’orrore che ogni guerra porta con sé. Intendiamoci, non che le guerre precedenti fossero meno terribili, ma era la loro narrazione che non arrivava troppo lontano. Di fatto, la narrazione diretta poteva coinvolgere soltanto i protagonisti – e, tra questi, ciò che ci interessa sono le “vittime” –, la cui sorte era da un lato quella di non poter più raccontare l’accaduto, essendo stati spazzati via dall’orizzonte della vita (quale memoria esiste, ad esempio, delle stragi continue di Gengis Khan?), dall’altro, nella migliore delle ipotesi, di tramandare oralmente quella sorta di ineluttabilità che accomunava la guerra alla carestia e alla pestilenza, quasi fosse un elemento estraneo alle decisioni umane, una specie di malattia contagiosa.In entrambi i casi, ogni cosa era delegata alla parola, e a una parola sostanzialmente incolta che non sarebbe riuscita a superare i confini temporali e spaziali dell’hic et nunc, considerando, tra l’altro, la frequenza endemica e ripetitiva della guerra.È vero, c’era l’arte che sopperiva alla voce flebile delle vittime, e se non altro ricordava agli uomini come la guerra fosse un’attività diffusa e tutt’altro che rara, verrebbe da dire che fosse un’attività “umana”. Tuttavia, l’arte è quasi sempre stata appannaggio dei vincitori, più inclini a tramandare la propria grandezza e magnanimità che non la crudeltà, ma soprattutto vive di una mediazione simbolica, di una metaforizzazione dell’evento, di ogni evento, sia che si tratti del concetto di bellezza come persino del ritratto di un singolo individuo.Per diventare universale deve cioè superare il confine dell’evento, e solitamente questo avviene ponendo un filtro linguistico ben codificato alla cruda realtà, trasformando cioè la violenza e la morte in simbolo: non è un caso che nella tragedia greca sia vietato mostrare l’atto violento, così come in tutte le rappresentazioni classiche della guerra, difficilmente si trovi l’immagine dell’azione cruenta, se non velata dagli stereotipi dell’eroismo, come testimoniano le opere da Fidia all’ultimo monumento ai caduti dei giorni nostri. Persino in autori da questo punto di vista “eretici” come potrebbero essere il Caravaggio dei vari martiri – San Giovanni e Sant’Orsola su tutti –, lo Géricault della Zattera – bella metafora della morte e del contemporaneo desiderio di vita – o il Goya de I disastri della guerra – la cui tiratura fu proibita, lui in vita, e procrastinata sino al 1863 – immettono nella loro opera un quoziente simbolico o più semplicemente allegorico che di fatto allontana la percezione così immediatamente fisica dell’orrore.Non così la documentazione sulla Grande Guerra. La documentazione, si badi, non la celebrazione, che invece risente all’ennesima potenza di tutti gli stereotipi accumulati in oltre duemila anni di retorica, come testimoniano i già citati monumenti ai caduti postbellici. La documentazione della guerra per la prima volta è demandata in modo massiccio alla fotografia (già presente sui campi di battaglia di metà Ottocento, ma allora necessitante di tempi di posa tanto lunghi da non poter registrare nessuna azione vera e propria) e al cinema o, meglio, al reportage e al documentario che delle due nuove arti sono la branca per statuto correlata alla “presa diretta” sulla realtà. Si potrebbe obiettare che anche fotografia e cinema obbediscono a una loro retorica interna, ed è vero, ma in quegli anni questa non era ancora così cresciuta (si paragonino, ad esempio, le immagini fotografiche della Grande Guerra con quelle delle varie Guerre del Golfo) e perciò una certa ingenuità linguistica unita alla facilità e alla richiesta di immagini ha costituito quell’immenso patrimonio di immagini che è la documentazione sulla Prima guerra mondiale. Basterebbe la sola quantità di immagini disponibili a far superare d’un balzo quei limiti temporali e spaziali di cui hanno sofferto le narrazioni belliche precedenti, ed è con questa mole che gli artisti operanti negli anni della Grande Guerra si sono trovati a fare i conti, prima ancora di entrare nel merito della qualità delle immagini, che rimane comunque la vera pietra di paragone. Di fatto, gli artisti impegnati a testimoniare direttamente la guerra sono stati i futuristi italiani e gli espressionisti tedeschi, mentre testimonianze “per assurdo” potrebbero essere considerate quelle dei dadaisti che da Zurigo rifiutavano l’insensatezza della guerra fuggendo in territori fisicamente neutrali e linguisticamente folli (e anche i linguaggi di De Chirico o di Mondrian, con quel loro “tirarsi fuori” dalla storia, in quegli anni possono essere considerati come una critica radicale al concetto di “storia progressiva”), e tuttavia, per quanto grandi, la loro efficacia “morale” risulta inferiore a quella delle fotografie scattate nelle trincee. Perché avviene questo?Innanzi tutto, la mole delle fotografie travolge ogni cosa, per la prima volta, e per la prima volta il mix di “presa diretta” e di crudezza senza filtri di questo nuovo strumento “di massa” (come “di massa” è stata per la prima volta la guerra) impone un modo di guardare alla realtà senza il velo della retorica, di cui invece la pittura – per quanto consapevole e critica nei confronti del conflitto – non si era ancora liberata: mentre la disillusione futurista si manifesta soprattutto negli scritti degli artisti, la denuncia esplicita degli espressionisti – Otto Dix e Georg Grosz su tutti – vive ancora di quella retorica che è sì “antagonista”, ma che purtroppo non ha la “naturalezza” feroce della fotografia. Basteranno pochi anni, e anche la fotografia si costruirà il suo bagaglio retorico, ma gli anni della Grande Guerra sono per essa gli anni dell’apprendistato, per così dire, che la manterranno libera perché ingenua.Al contrario, la pittura dovrà tacere, parafrasando l’aforisma wittgensteiniano per cui «ciò di cui non si può dipingere (o scolpire, o esercitare l’arte), non deve essere dipinto».
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