martedì 7 febbraio 2023
Il grande antropologo all’età di 93 anni rilancia la centralità dei Camuni: «Col neolitico succede una rivoluzione, un cambio di ideologia concettuale e le statue si coprono di simboli del divino»
Emmanuel Anati

Emmanuel Anati - WikiCommons

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Già 5.000 anni fa un dio unico, comprensivo del cielo e della terra, entità cosmica che in sé racchiudeva l’universo intero. Se questo è vero (e come vedremo sono numerose le prove archeologiche), tremila anni prima della nascita di Cristo il monoteismo conquistò per un lungo periodo la spiritualità degli uomini, riempiendo l’orizzonte religioso e artistico delle popolazioni che abitavano l’Europa e l’Asia. Tutto questo ben prima di ogni riferimento biblico, prima delle grandi religioni monoteistiche, prima anche della rivoluzione di Aton, il dio-sole del faraone Akhenaton (1330 a.C.). E la grande intuizione – che in poco tempo sconvolse l’arte e incendiò l’animo del mondo allora conosciuto, diventando per l’epoca una religione “universale” – partì da molto vicino a noi: dai popoli che cinquemila anni fa abitavano l’area alpina, principalmente la Valcamonica, ma anche la Valtellina, l’Alto Adige, la Val d’Aosta e il Vallese svizzero.

È questa l’avvincente teoria sviluppata da Emmanuel Anati, uno dei massimi esperti mondiali in paletnologia e arte rupestre, che nel libro Spiriti di pietra, sottotitolo Menhir, statue menhir e altre immagini dell’Invisibile (ed. Atelier, 125 pag., 20 euro), analizzando l’arte delle statue-stele lungo i millenni documenta la nascita di una rivoluzione concettuale destinata a cambiare la storia delle religioni. “Già 40mila anni fa nel deserto israeliano del Negev, ad Har Karkom, gli uomini del Paleolitico posero in verticale grandi pietre naturali scelte per la loro forma vagamente antropomorfa, creando così il più antico santuario di menhir a noi noto, ma qui siamo ancora lontani dal monoteismo, quelle pietre rappresentavano le anime dei defunti”, ci spiega Anati di passaggio in Valcamonica, la valle in cui approdò nel lontano 1956 dall’università di Tel Aviv e riportò alla luce le incisioni rupestri degli antichi Camuni (oggi patrimonio Unesco). “Quei monoliti rispondevano cioè alla più antica esigenza degli uomini di fronte alla morte: comprendere dove va l’anima sfuggita al corpo che si decompone”. L’idea di un ‘altro-mondo’ popolato dalle anime dei defunti è presente ovunque, e numerose culture pongono questo ‘altro-mondo’ proprio nella pietra: la materia più inaccessibile ai viventi. “Gli ‘spiriti di pietra’ vengono eretti per decine di millenni: a volte sono singoli, a volte in circolo, utilizzano massi già in natura antropomorfi (menhir) o invece lavorati dall’uomo per ottenere sembianze umane (statue-menhir)”.

Dunque i monoliti in selce di Har Karkom (secondo alcune ipotesi archeologiche il Monte Sinai della Bibbia) da 40mila anni ci “guardano” con le orbite vuote, ci inquietano, ci appaiono ancora incredibilmente umani. In realtà non essendo lavorati dall’uomo, non potrebbero considerarsi opere d’arte, ma sono stati scelti e disposti secondo una precisa intenzione, dunque l’insieme del sito è opera d’arte concettuale: “La raccolta di oggetti naturali dalle forme allettanti è certamente un processo creativo, esattamente come le ‘installazioni’ degli artisti odierni”.

Dalla notte dei tempi di Har Karkom, attraverso i celebri campi di menhir eretti nel 6000 a.C. sulle coste europee dell'Atlantico (Portogallo, Spagna e Francia, poi Irlanda e Nord Europa), fino ad arrivare ai Mohai dell’Isola di Pasqua scolpiti 600 anni fa e addirittura a opere odierne in Oceania, Siberia, Mongolia e in molte altre regioni del pianeta, “ad accomunare tutte queste ‘rappresentazioni dell’invisibile’ c’è l’idea che l’anima sopravvive al corpo e i defunti sono presenti, agiscono e influiscono sulla loro vita – continua lo studioso –: il monolito è issato in verticale, l’antenato è risorto”. E l’involucro di pietra (a noi impenetrabile) dà corpo al suo spirito.

Stele proveniente da Arco, Trento

Stele proveniente da Arco, Trento - foto tratta dal volume “Alle radici d’Europa” di Umberto Sansoni, Electa, per gentile concessione dell’autore

Ma, come dicevamo all’inizio, la grande rivoluzione, ossia il passaggio dallo spirito degli antenati al culto della divinità, secondo Anati avviene in un momento e in un luogo precisi: verso il 3000 a.C. (cinquemila anni fa) nell’arco alpino. “Siamo alla fine del Neolitico, lungo l’età del Rame e poi del Bronzo, e succede qualcosa di dirompente, un cambio di ideologia concettuale – spiega Anati –, l’iconografia muta, le statue-stele si coprono di simboli ben stabiliti, disposti secondo uno schema che si ripete identico per secoli e per migliaia di chilometri”. Ora la forma antropomorfa si sfalda, la stele non rappresenta più l’anima di un defunto ma un’entità cosmica unitaria e insieme tripartita, che racchiude in sé i tre elementi dell’universo: il cielo, la terra, il sottosuolo. “Le immagini non lasciano dubbi, a partire dalla Valcamonica e dalle valli limitrofe il nuovo fermento creativo produce statue-menhir inedite rispetto al passato e ripetitive, quasi un copia-incolla del medesimo schema concettuale: in alto il disco del sole, volto della divinità, rappresenta il cielo; la fascia centrale del busto corrisponde alla vita terrena, con armi e strumenti di lavoro (simboli di potere e di forza) disposti a formare le braccia, oltre a spirali (attributi di fertilità), monili (simboli di status sociale) e vari animali; la parte inferiore, divisa dalla “cintura” a zig zag (il fiume), è il mondo sotterraneo, quello dei morti, spesso decorato con la figura di un aratro, l’attrezzo che scava la terra e rivolta le zolle (impossibile non pensare alle divinità greche legate alle messi e all’oltretomba come Demetra e sua figlia Persefone, sposa proprio di Ade signore degli inferi, o al dio egizio Osiride, il cui corpo disseminato e poi rigerminato nel grano ne fa il dio dei morti). “La nuova ideologia si impone proprio quando l’introduzione dei metalli rivoluziona l’economia – continua Anati –, le zone ricche di giacimenti minerari, prima secondarie perché non coltivabili, diventano centri di intensa attività estrattiva, industriale e culturale, le armi e gli oggetti non sono più di pietra ma di rame e di bronzo. E il repertorio figurativo che riempie i monumenti rimanda immancabilmente a una stessa divinità cosmica tripartita”.

Ma chi furono gli artisti che “duemila anni prima di Mosè” seppero tradurre in arte raffinata questa concezione religiosa, facendo della Valcamonica la “Firenze” di fine Neolitico? E quali “missionari” in poche generazioni la diffusero a macchia d’olio nell’intero continente eurasiatico, abbattendo confini etnici, linguistici e culturali? “La cosa meravigliosa, e il vero dilemma che farà discutere, è che queste iconografie così elaborate appaiono improvvisamente in una ristretta area di valli alpine. E’ una scoperta che sconvolge la storia delle religioni: finora tutti noi pensavamo che la tripartizione dell’universo fosse un concetto indoeuropeo, ma allora dovremo spiegarci perché questa iconografia si ritrovi già concettualmente ordinata in Valcamonica mille anni prima che nel mondo vedico dell’India! E poi uguale nei Balcani, nelle steppe dell’Asia centrale, in Cina, in Siberia, nelle isole Orcadi dell’estremo nord…”, commenta l’archeologo con l’emozione che brilla negli occhi.

La stele camuna “Bagnolo 2”, con scene di aratura

La stele camuna “Bagnolo 2”, con scene di aratura - foto tratta dal volume “Alle radici d’Europa” di Umberto Sansoni, Electa, per gentile concessione dell’autore

Ha 93 anni ma non ha perso l’entusiasmo, percorre le strade del mondo e, al ritorno, si ritira a raccogliere le idee nel deserto di Gerusalemme. Da qualche anno ha sviluppato un nuovo metodo di ricerca che è l’antropologia concettuale, “la disciplina che cerca il significato profondo delle cose sondando la mente umana che le concepì. Ossia l’archeologia fornisce la materia prima (oggetti, datazioni…), l’antropologia concettuale risolve i quesiti ulteriori: perché l’uomo ha fatto questo? che cosa pensava? Senza questa disciplina non saremmo mai riusciti a penetrare la pietra e a raggiungere gli spiriti al suo interno”, sorride. Un metodo di lavoro che allarga lo sguardo a contesti universali e mira a conclusioni antropologiche di vasta portata.

Discendente di una ricca famiglia ebrea di mercanti di stoffe cacciati dalla Spagna nel ‘500 e arrivati in Toscana, sfuggito da bambino ai rastrellamenti nazisti grazie a un carabiniere (“ma parte della famiglia è stata sterminata”), costretto in terza elementare dalle leggi razziali a lasciare la scuola (“lo choc fu vedere che la mia maestra non mi difese”), emigrato a 18 anni in Israele, si è laureato archeologo a Gerusalemme e specializzato ad Harvard, alla Sorbona di Parigi, a Londra e Oxford, poi ha insegnato in università italiane e straniere e guidato missioni archeologiche in tutto il mondo. Appagato? “Niente affatto. In Italia c’è bisogno di un istituto di ricerca per portare avanti l’antropologia concettuale, con un museo della preistoria che non assomigli a un cimitero di oggetti ma a un luogo in cui le visioni dei nostri antenati siano vive. Ho ancora molte cose da fare…”.


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