giovedì 3 luglio 2014
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Ci accompagnerà a partire da oggi una serie di articoli su narratori italiani di ambito cristiano del secondo ’900. Si tratta di autori che toccati dal sentimento del cattolicesimo hanno avvertito il bisogno di riflettere criticamente sulla fede, finendo col costruire una linea particolare, quella della scrittura inquieta e sofferta, determinata appunto da una fede altrettanto sofferta. Scrittori non dogmatici dunque, ma neppure eretici, narratori di profonda fede cristiana, desiderosi di reinterpretare il Vangelo secondo la lettera della povertà e della semplicità. Le radici lontane di questa scrittura sono i Vangeli canonici ma anche la Patristica e in tempi moderni la grande scuola francese costruita da Mauriac, Claudel, Bernanos, dal misticismo cristiano di Kierkegaard, di Dostojevskij e dei filosofi della comunicazione intersoggettiva, Buber, Ebner, Guardini, Ducci. L’intento è di sollevare la pietra del silenzio da alcuni nomi che nel Novecento hanno tenuto in piedi la linea del pensiero evangelico nella scrittura. (R.N.) Era da poco uscito Getsemani quando lo conobbi a Bari. Con Leonardo Mancino, un poeta di Osimo trapiantato in Puglia, ricordo che ne illustrammo in un incontro pubblico le peculiarità tematiche: la religiosità laica, il bisogno di discutere intorno ai temi del fondamento, l’esaltazione della fratellanza tra gli uomini, l’impegno sociale, la necessità di urgere su coloro che ci stanno attorno, l’impegno insomma, unica fonte dalla quale potevano scaturire veri miracoli. Paradigmi su cui si era mossa la sua penna a partire dal romanzo d’esordio, Le due folle, nel ’57, dove denunciava la massificazione dei singoli nel collettivismo sovietico e nel consumismo americano e passando per L’inquisito, del ’61, un romanzo che si districava tra dissidi e convergenze di giustizia terrena e giustizia divina. Fino a Il mare verticale del ’73,e ad Eutanasia di un amore, del ’76, romanzi fortunatissimi, (ben settecentomila copie quest’ultimo) nei quali,  narrando storie d’amore borghese, continuava a scavare sul rapporto tra gli uomini, su quel cattolicesimo di maschera che impedisce al cristianesimo di emergere, di porre il rapporto tra l’io e l’altro, tra io e Dio, su un terreno di autenticità.  Ne ricordo la sagoma buffa, come di uno degli omini disegnati da Maccari, o da Franz Borghese, con baffoni, lunghe basette e stempiato. Scappò, appena finita la conversazione, a ristorante, per cena, lasciando tutti più che di stucco, alla chetichella, a fare chiacchiera e quando lo raggiungemmo pretese dalla sua segretaria, una ragazza bionda sui venticinque anni, della quale ricordo un luminoso filo di perle al collo, che corresse con un taxi in albergo a prendergli l’olio, il suo olio dei colli toscani. Se lo portava dietro come una reliquia. Puntuale come un orologio all’appuntamento con le proprie abitudini, insomma, lo scrittore cattolico che con  Il papa (1963) aveva raggiunto il successo e messo a soqquadro la chiesa. Un romanzo nel quale metteva in discussione l’infallibilità del dettato pontificio, aprendo una serie di varchi al dubbio, al discorso intorno al potere temporale del Vaticano e riconoscendo alla letteratura una funzione critica, politica, etica. Erano gli anni in cui Montesanto pubblicava La Cupola, un assalto alla secolarizzazione della chiesa e alle connivenze col potere democristiano, Arpino dava corpo alla propria inquietudine religiosa con Il buio e il miele, Pomilio pubblicava un romanzo inequivocabile come La compromissione e Raffaele Crovi sparava bordate contro una società in maschera con Carnevale a Milano, Fuori del Paradiso e Pubblicano e Fariseo. Un’immagine seriosa che appena si stempera se si legge ciò che lui stesso racconta di sé nell’Autodizionario degli scrittori italiani, quando dice: «Gli amici di Giorgio Saviane stentano a credere che egli sia il rovescio del suo personaggio. Quando esce di casa infatti si maschera da burlone per emergere dalla iperrealtà che governa il suo scrivere e i suoi ritmi interiori».  In realtà Saviane procedeva in un viaggio narrativo fatto di rilievi evangelici e interrogativi esistenziali non alieni da urgenze ideologiche, una posizione complessa, difficile da inquadrare in una qualche corrente, perché lo scrittore veneto era lontano dall’impegno laico di Vittorini e lontano dal cattolicesimo di Santucci e di Diego Fabbri. La sua era una posizione scomoda, macerata da inquietudini. Ricordo che raccontò questa difficile posizione che lui uomo e scrittore assumeva di fronte a Dio e ai lettori, a Rovigo, durante uno stage in cui eravamo stati invitati dai docenti veneti a confessare in pubblico la nostra religiosità, ma anche il nostro laicismo. Era autunno, lui saliva da Firenze dove si era trasferito da giovane e dove aveva professato la giurisprudenza e aveva approfittato per fare un salto a casa, in quel Castelfranco Veneto dove era nato nel 1916 e dove aveva ancora amici, affetti, ricordi. Era emerso in quella circostanza un Saviane ancora più profondo, analitico, in guerra con la stupidità quotidiana ma anche con i grandi misteri della vita, fastidioso a se stesso e al mondo intero e tuttavia affabile. Mi aveva spiazzato, perché conservavo il ricordo dell’altezzosità mostrata a Bari con la sua fuga. Un carattere gioviale sotto una scorza da duro inossidabile. Una complessità che avrebbe lasciato trapelare più tardi nei racconti di Diario intimo di un cattivo. «Un campionario quasi completo - ne scrisse l’amico Geno Pampaloni - della sua disponibilità narrativa».  In quella circostanza mi spiegò che era amareggiato dall’invidia dei colleghi. Il successo eccessivo aveva fatto sì che la critica spiccia bollasse Eutanasia di un amore, dal quale era stato tratto anche un film, per un romanzo commerciale.Ma come Pampaloni, anche Saviane restò sempre 'fedele alle amicizie'. Lo dimostrò almeno a me, in due circostanze, nel ’91 e nel ’98, col suo consenso allo Strega. Una fedeltà contadina, quella della famiglia dalla quale proveniva, come gli accadde di raccontare nella saga Il tesoro dei Pellizzari. Un romanzo scritto da giovane ma che gli era stato rifiutato da tutti e pubblicato solo nell’82 dalla Mondadori e nel quale ripercorrendo la propria vita tra gli anni Venti e i Cinquanta, ricostruiva una saga familiare ambientata nelle campagne del Veneto. Un percorso di memoria, quasi un bisogno di pacificazione in quella sua vita inquieta.

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