martedì 19 gennaio 2016
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Quando si dice Renoir, è fatale che nella memoria visiva scattino una serie di flash, di reminiscenze scolastiche che tutte approdano a un medesimo senso comune e cioè a un repertorio di immagini coatte: un lume particolare, caldo e sensuale, il rosa della carne specialmente femminile, un trionfo – mai eccessivo tuttavia – di solarità mediterranea, un postura così naturale dei corpi da non richiamare la posa nell’atelier ma il fermo-immagine casuale di un cinema in anticipo sui tempi: questa è la traccia lasciata, per esempio, a chi abbia ammirato anche una volta sola il Ballo al Moulin de la Galette, Il palcoo la sequenza reiterata, degna di un Rubens o di un Tiziano redivivo, delle Bagnanti. Insomma nel senso comune Renoir è Renoir, una forma indelebile della pittura nella sua essenzialità di forma-colore a prescindere dall’etichetta, altrettanto fatale e scolastica, che lo rubrica fra i maestri dell’Impressionismo. Infatti è vero che era stato, appena ventitreenne, fra i protagonisti del celebre Salon del 1864 con Monet, Sisley e compagnia (un autentico disastro di critica e pubblico, un fiasco così grande da annientare chiunque non avesse la coscienza e il rigore di un artista sovrano) ma è vero altrettanto che la qualifica di 'impressionista' lo infastidiva alla pari di qualsiasi 'ismo' e perciò di qualunque poetica che non fosse tradotta nella concreta oggettivazione di un’opera d’arte. Voleva essere sé stesso e non altro, dare forma e vita a qualcosa in cui, appunto, il soggetto e l’oggetto della rappresentazione si combinassero in un’unica forma, nella luce biunivoca che non lasciasse margini di incertezza, e dunque esigeva la massima posta che, per un artista, equivale a proporre come natura ciò che è un combinato disposto di ispirazione e di cultura.  Alla totale singolarità di Pierre-Auguste Renoir (Limoges 1841– Cagnes-sur-Mer 1919) è dedicato Renoir, mio padre (traduzione di Roberto Ortolani, Adelphi, pp. 434, euro 22) che suo figlio Jean – il grande regista di La vie est à nous e La regola del gioco – gli dedicò nel 1962 riandando ai colloqui avuti con lui mezzo secolo prima, quando Jean non era ancora un cineasta ma un ufficiale convalescente, reduce dal carnaio della Grande Guerra, e Pierre-Auguste viceversa un maestro consacrato, ormai adulato da ammiratori e collezionisti, ma allo stesso tempo un vecchio allo stremo, vulnerato dalla malattia (un’artrite divorante) e costretto sulla sedia a rotelle che, se da un lato non gli impediva la pittura (continuò fino a poco prima di inoltrarsi nell’agonia, fissando un mazzetto di mughetti), dall’altro gli imponeva un’essenzialità ulteriore, lo stile ascetico, traslucido, dei grandi vecchi che una volta Adorno battezzò come lo 'stile tardo'. Stupendo nella sua compattezza come nel suo sviluppo per cerchi concentrici, a grandi volute, Renoir, mio padre non è affatto una biogra- fia (tanto meno una biografia romanzata) ma è contemporaneamente il libro su un uomo, su un’idea dell’arte e sul Paese che la vide fiorire a lungo contrastandola, la Francia tra l’Impero di Napoleone il Piccolo e la Terza Repubblica detta anche la «Repubblica dei professori». Jean insegue la singolarità del padre, la sua testarda intransigenza di fronte al rifiuto e al misconoscimento, l’innata coerenza di un uomo che non volle mai altro (e a lungo fu indeciso, nel 1900, se accettare o meno la Legion d’onore) se non corrispondere a quella che aveva pudore a definire la propria vocazione. Con vividezza di particolari, con la vena dell’affabulatore che non cede alla lusinga dell’aneddoto, Jean utilizza i ricordi senili di Pierre-Auguste per stagliarne volta a volta la figura sul fondale dei suoi spazi-tempi: l’origine umile e provinciale, l’apprendistato come artigiano e decoratore di porcellane; poi l’approdo a Parigi, la scoperta della pittura en plein air nella foresta di Fontainebleau, le prime disastrose esposizioni a cavallo della guerra francoprussiana, l’incontro con Aline, la donna della sua vita che gli darà tre figli; quindi la consacrazione (gestita con riserbo e oculatezza da un gallerista di genio, il suo amico Ambroise Vollard) e la libertà inventiva definitivamente conquistata il cui lascito, alla morte di Renoir, consiste in qualcosa come un migliaio di tele. Il racconto di Jean evade sia la rigidezza del monumento sia la cruda testimonianza del documento. Si tratta, piuttosto, di una narrativa che procede dall’ascolto e da una forma sempre sorvegliata, mai soccombente, di ammirazione.  Che cosa ammira di suo padre, Jean? Che cosa gli preme testimoniare e ricevere da lui? Non solo e non tanto il prodigio di uno stile presto inimitabile, quanto la perfetta indipendenza dello sguardo, il sospetto delle mode, il rifiuto degli idoli del Tout Paris, l’estraneità ad ogni dogmatismo: Pierre-Auguste Renoir, ci ricorda suo figlio, fu un democratico senza perciò rinunciare a un quadro domestico che sapeva di vecchia Francia, fu dalla parte di Dreyfus senza rompere con l’amico Degas che gli era contro, fu contro la guerra (e da vecchio contro ogni guerra) perché già ne aveva vista una. Pare che alla fine, ormai immobilizzato, devastato dall’artrite, impedito a dipingere se non stringendo il pennello col palmo delle mani, si facesse portare al centro dello studio per irrorarsi della luce di Provenza che là dentro dilagava: lì si appostava, ricevendola tutta, scrutandone il riverbero sulla superficie degli oggetti e sul corpo già indorato dal sole delle sue modelle. Pare anche che le ultime parole siano state: «Credo di cominciare a capirci qualcosa» o forse, ancora più semplicemente: «Oggi ho imparato qualcosa». Infatti è Jean a ricevere quel testamento umilissimo, il maestro che firmerà La grande illusione o – come disse André Bazin – «il più visivo e il più sensuale dei registi», davvero il figlio di suo padre.
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