domenica 10 gennaio 2016
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La “Signora” è dappertutto, il suo ritratto è appeso nelle case, nei negozi, nelle bancarelle che assiepano questa città dall’aria vittoriana e dall’umore tropicale. Chiedo da quando è così, da quando Aung San Suu Kyi è diventata una immagine permessa e addirittura un gadget e mi rispondono che è un processo cominciato tre anni fa. Insieme ad una trasformazione velocissima del traffico e dell’edilizia. La “transizione” è partita nel 2011, quando la giunta militare ha capito che troppe cose erano diventate ingestibili, il peso eccessivo dei cinesi – della mafia di Hong Kong soprattutto – che stanno comprando il paese, i conflitti con tutte le minoranze etniche, e soprattutto l’embargo. Gli amici di Italia-Birmania mi dicono che l’embargo ha avuto un effetto davvero decisivo.  Oggi con le auto e i Suv che intasano i bei viali circondati da pezzi di foresta, guglie dorate di templi, e placidi laghi, si fa fatica ad immaginare. La transizione ha trasformato una città sonnacchiosa e spaventata, dove l’incubo di essere sorvegliati continuamente è ancora presente in una capitale con due milioni di portatili, postazioni internet, teahouse, ristoranti di tutti i tipi ed una vigorosa vita culturale. Si sono aperti nuovi giornali e nuove catene televisive. Il direttore del “Myanmar Times”, Guy Dinmore, un sessantenne inglese che viene da Roma dove ha diretto per anni il Financial Times, mi dice che c’è una nuova spinta anche da parte di cronies, dei miliardari birmani che vogliono partecipare alla transizione. Il “Myanmar Times” in due edizioni, una in birmano ed una inglese è una creatura di questo tipo. Consente una nuova libertà di informazione, anche se alcuni temi sembrano tabù, come quelli del rapporto difficile tra buddisti e musulmani. Eppure a Yangon sono visibili le tracce di un cosmopolitismo di vecchia data, magnifiche moschee, templi induisti e templi del buddismo cinese della ricca comunità di Penang e Singapore, chiese armene, cattoliche, battiste e luterane. In città c’è un convento di suore della Riparazione che si occupa di anziani «di tutte le religioni ». La questione è capire se Yangon e il Myanmar tutto intero saranno capaci di ridiventare un pluralismo asiatico gestibile. Se il paese si è aperto per contrastare l’egemonia cinese e invitare Giappone, Corea, Europa ed America a fare la propria parte, è anche vero che sarà interessante vedere se il buddismo che pervade il Myanmar sarà il bacino antropologico giusto per una transizione.  Fino ad ora esso ha conformato la mentalità, i costumi, la pazienza e la capacità di resistenza del popolo birmano (alcuni dicono che il fatalismo del buddismo theravada ha influito in male, troppa pazienza, altri che ha reso possibile la resistenza). Fatto sta che si tratta di qualcosa che permea in profondità il senso di appartenenza in un misto di spiriti e divinità animiste, scaramanzia, astrologia, magia di ogni tipo. Gli stessi militari sono noti per essere seguaci di astrologi a tal punto da fare stampare nuove ed inutili banconote, da vestirsi da donna per contrastare Aung San Suu Kyi e da costruire una capitale fantasma nuova di zecca nel remoto centro del paese. La scommessa è capire se la forza della cultura locale riuscirà ad assorbire le spinte centrifughe della globalizzazione e a tenere in piedi un paese costituito da decine di etnie e da una frontiera labile e già cannibalizzata dai trafficanti cinesi di droga e pietre preziose – il paese è uno di più grandi produttori di giada, rubini, zaffiri, in mano per buona parte a militari e mercato nero. Ma il pericolo è anche presente sulla frontiera con il Bangla-Desh, la cui popolazione molto più numerosa di quella birmana transiterebbe volentieri da questa parte, incrementando la paura di una invasione musulmana. Nel frattempo il paese ha riscoperto il turismo ed è piacevole stare qui a godere di un mondo così colorato e denso. Seduti su uno sgabello di plastica in mezzo alla folla della città vecchia a sorbire una mohinga, l’immancabile zuppa di pesce e spezie con cui si fa colazione qui, sia intorno ai vecchi grandi cinema che hanno riaperto con pellicole occidentali, ma anche Bollywood e film birmani, si viene circondati da file di monache in rosa, con una sciarpa marrone intorno al collo, le più giovani tengono un ombrello di carta a coprire le teste rasate delle più anziane. E poco lontano si sente il suono della questua dei novizi, in un paese in cui andare a fare il monaco è previsto per chiunque, per un periodo di parecchi mesi, almeno due volte nella vita. Riuscirà la “Signora” a compiere questo passaggio restando incolume e preservando il paese dai disastri che sono avvenuti nelle nazioni confinanti? Il pericolo di disastro ambientale incombe, con folli attività estrattive e nuovi pozzi petroliferi, il taglio di buona parte della foresta di tek a beneficio dei pavimenti dei ricchi cinesi, l’inquinamento da mercurio di mari e fiumi e la moltiplicazione del parco automobilistico? Non sarà facile. Il mio amico del Myanmar Times dice che la “Signora” è nota per essere una lady di ferro e per non volere ascoltare nessun consiglio. Fatto sta che la patata bollente è stata scaricata nelle sue mani e la parte più complicata è ancora da venire, quando superata la luna di miele cominceranno i problemi veri della transizione.
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