lunedì 13 luglio 2015
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Sono le stoffe di Rut, la straniera. Ancora sgargianti nonostante il viaggio che le ha sballottate da una parte all’altra del Mediterraneo, nonostante le delusioni e le violenze, l’umiliazione e la vergogna. Non vengono dal paese di Moab, come nella Scrittura, ma dall’Africa. Anche se poi, in realtà, Rut ha tanti volti, tante nazionalità. Può essere romena o nigeriana, non importa. Quando arriva qui, nel grande appartamento del centro di Caserta, a poca distanza dalla Reggia che attira turisti da tutto il mondo, Rut ha finalmente trovato casa, non è più straniera e le sue stoffe colorate possono di nuovo tornare utili.. È una storia di donne, questa del “vestire gli ignudi”. Lo era anche l’omonimo dramma di Luigi Pirandello, del resto, con la governante Ersilia che, per sfuggire all’onta del passato, si crea un’identità fittizia e con quella si illude di trovare il suo posto nella società. C’era di mezzo un uomo, anche quella volta, uno di quelli che si tolgono la voglia e lasciano la donna dietro di sé, come un rifiuto. Suor Rita Giaretta lo dice chiaramente, con il suo bell’accento vicentino che costituisce una prima forma di meticciato tra Nord e Sud: «Il nostro principale avversario è il maschilismo, se vogliamo salvare le ragazze dobbiamo prima educare i ragazzi». Impresa non facile, perché nel Casertano, specie lungo la Domiziana, la prostituzione è un fenomeno diffuso, dietro il quale si nasconde il traffico di esseri umani, la riduzione in schiavitù. Ricatti, l’inganno della stregoneria, la madam che esercita un potere pressoché assoluto. Nel 1995, quando suor Rita e le sue consorelle si sono stabilite in città, hanno capito subito in quale direzione dovevano muoversi: «Rendere protagoniste queste donne – riepiloga la religiosa – per restituire loro dignità e speranza». Il primo punto d’appoggio è stato presso la parrocchia della Madonna di Lourdes, in un quartiere residenziale dell’immediata periferia. La sistemazione attuale, su corso Trieste, è venuta più tardi, ma il nucleo di Casa Rut era già formato. La periferia, però, non è stata abbandonata. Nella zona in cui le orsoline avevano iniziato a operare vent’anni fa si trova oggi il laboratorio di NewHope, che è poi il posto in cui le stoffe di Rut tornano a nuova vita.. L’avventura è iniziata nel 2003, con la richiesta di un migliaio di cartellette in tessuto da realizzare per un convegno. Le ragazze allora presenti in comunità avevano pochissima esperienza di cucito, ma si sono ingegnate, anche adoperando i materiali che avevano portato con sé, in particolare dall’Africa. Il risultato è stato apprezzato, si è sparsa la voce, un anno dopo il progetto della sartoria etnica era una realtà. Oggi, nei locali messi a disposizione dalla Diocesi di Caserta, la cooperativa produce bomboniere e biancheria, sciarpe e teli mare, custodie per cellulari e borse, stole per i sacerdoti e tuniche per la Prima Comunione. Le famose cartellette restano tra gli articoli maggiormente richiesti, ma l’oggetto di cui suor Rita va più fiera è un piccolo fiore ornamentale realizzato con gli avanzi di stoffa. È in vendita accompagnato da un cartiglio che avverte: «Non c’è scarto che non possa fiorire». Gli ambienti sono semplici, funzionali, e nello stesso tempo straordinariamente allegri. In un pomeriggio d’estate, con il caldo che fuori continua a picchiare, a NewHope è un viavai continuo di amici e sostenitori, non necessariamente casertani. Alcuni arrivano in gruppo da Formia per vedere il campionario, chiedono se ci sono novità, fanno il loro ordine. La sartoria impiega cinque persone e, insieme, garantisce la formazione e il tirocinio delle donne ospitate al momento, molte dei quali hanno i figli con sé. A un certo punto in laboratorio si affaccia una bambina e chiede alla mamma, che è una delle sarte, se questa sera si può andare a cena dalle suore, a conferma di un legame che si mantiene vivo anche quando il percorso di emancipazione è ormai avviato.. Da NewHope passa per un saluto anche Titti Malori, vicepresidente di Casa Rut. Insegnante di matematica, fu una delle poche a non scandalizzarsi quando le religiose iniziarono a muoversi per Caserta in bicicletta. Ancora non avevano ricevuto in dono il furgoncino sulla cui fiancata, per ringraziare l’anonimo benefattore, è stata riportato il motto della comunità, quell’invito a “osare la speranza” che fa anche da titolo al libro intervista che suor Rita ha realizzato in dialogo con Sergio Tanzarella (lo ha pubblicato Il Pozzo di Giacobbe nel 2012). Per inciso: l’anonimo del furgoncino è in effetti un’anonima.. Questa è una storia di donne, l’avevano detto. E di meticciato, non dimentichiamolo. Con il tempo anche il campionario dei tessuti si è ampliato. Ora si impiega anche la seta di San Leucio, filato antico, pregiatissimo e, come purtroppo accade in questi casi, a forte rischio di estinzione. Le sarte di NewHope lo adoperano, tra l’altro, per gli arredi liturgici delle suore Alcantarine di Assisi, una famiglia francescana che si è fortemente legata all’esperienza di Caserta. . Da Casa Rut sono passate negli anni circa 400 donne, con storie solo in apparenza simili. «Quando è il corpo a essere violato – avverte suor Rita – viene compressa la sfera più intima della persona, il luogo interiore in cui ciascuno di noi è veramente nudo, veramente bisognoso di essere rivestito. Lo scopro ogni volta che mi accosto a una di queste ragazze e mi ritrovo a lavorare su me stessa, sulla mia corporeità e fragilità. Ci vuole tempo, ci vuole molta pazienza, come nell’episodio del Piccolo Principe con la Volpe. Un passo dopo l’altro, con calma, restando in ascolto, cogliendo il minimo segnale di apertura e confidenza. Queste donne vengono da traumi terribili, a volte quasi incredibili. Una mattina, per esempio, ci siamo ritrovate davanti alla porta della comunità una ragazza nigeriana che era sbarcata in Italia ancora minorenne, era stata avviata alla prostituzione prima ad Amsterdam e poi da queste parti, nella zona di Aversa. Aveva aspettato la maggiore età per rivolgersi a noi. L’alba in cui si era presentata a Casa Rut era quella del suo diciottesimo compleanno».. Inizialmente le donne cercano rifugio, ma la liberazione viene solo con l’indipendenza economica. «Restano ricattabili fino a quando non sono in grado di guadagnarsi da vivere con il loro lavoro – insiste suor Rita –, la nudità più terribile è proprio questa. Ed è il motivo per cui è indispensabile che imparino un mestiere«. NewHope non è soltanto un laboratorio manuale. La scommessa più impegnativa, sottolinea suor Rita, è di natura educativa e culturale. Cambiare la mentalità, anche dei credenti. Per questo Casa Rut organizza campi estivi, avvia collaborazioni con le scuole, non perde occasione di coinvolgere i giovani e la società civile. Il doppio anniversario (il decennale della cooperativa, il ventennale della comunità) è stato celebrato con un unico avvenimento, il NewHope Festival del marzo 2014. Concerti, dibattiti, un concorso riservato agli studenti delle scuole superiori, che hanno raccontato con parole e immagini il loro incontro con le tante Rut che a Caserta hanno ritrovato speranza e riscatto. Suor Rita, però, non è ancora soddisfatta. «Davanti a drammi di questa portata – dice – il volontariato non può bastare, occorre che le istituzioni si decidano a fare la loro parte». Qualche politico se le ricorda ancora, le lettere aperte che suor Rita ha inviato nel corso degli ultimi anni, affrontando senza reticenza i temi dell’immigrazione, dello sfruttamento della donna, dell’uguaglianza e dignità di ogni essere umano. «Ognuno di noi è carne di Cristo», ripete. Una carne che chiede di essere rivestita di bellezza, fosse anche quella di un fiore ricavato dagli scarti.
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