venerdì 3 luglio 2015
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Anticipiamo ampi stralci della predica che il vescovo Nunzio Galantino (nella foto), segretario generale Cei, dedicherà al tema «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia» oggi a Spoleto. Quest’anno le prediche, proposte dall’arcidiocesi assieme al “Festival dei 2 Mondi” e col patrocinio del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione sono dedicate alle “Parole per la felicità”, indagano il Discorso della montagna: ogni versetto viene commentato da un predicatore illustre ogni venerdì, sabato e domenica alle 17 in San Domenico. Dopo Enzo Bianchi, Salvatore Martinez e Galantino, nei prossimi giorni interverranno Gianfranco Ravasi, Mauro Gambetti, Cristina Cruciani e Renato Boccardo.Possiamo dirlo con certezza: non v’è uomo, sotto qualsivoglia latitudine, che non coltivi l’anelito a un’esistenza improntata alla giustizia; che vuol dire esistenza riscattata dallo squilibrio dell’iniquità e dalla mortificante umiliazione dell’abuso e della disonestà. È lo stesso anelito che attraversa la Scrittura: dal grido che si eleva dalla terra, irrorata dal sangue di Abele (Gen 4,10), sino al verdetto dell’Agnello, i cui giudizi – come si legge in Ap 19,2 – «sono veri e giusti». Non è per nulla difficile cogliere l’attualità dell’anelito alla giustizia. Del resto, chi potrebbe sentire lontane le parole di un Geremia che, al cospetto di un Dio «troppo giusto» – come egli stesso afferma –, si chiede: «Perché le cose degli empi prosperano? Perché tutti i traditori sono tranquilli?» (Ger 12,1)? Quasi a dire: com’è possibile sopportare le tante forme di ingiustizia da parte di chi crede in un Dio giusto?Insomma, chiedere giustizia, desiderare, bramare la giustizia: lo facciamo tutti, ogni giorno. Il discorso della Montagna, però, conferisce a questo anelito un profilo di urgenza che supera la mera aspettativa di un riscatto: è beato chi ne ha fame e sete, chi ne ha un bisogno primario e ineludibile. Soffermiamoci brevemente su questo bisogno primordiale e lasciamoci provocare dalla sua impellenza dirompente.Una prima considerazione da fare si concentra sull’obiettivo della beatitudine, che è duplice: all’annuncio evangelico di felicità è infatti associato collateralmente un movimento di denuncia che, pur essendo implicito, merita di essere approfondito. C’è qualcuno che non è beato, anche se il discorso di Gesù non lo menziona. A non essere beati sono ovviamente coloro che non operano ciò che è giusto, ma la cosa, detto tra le righe, sarebbe fin troppo evidente. Meno palese è invece che lo siano coloro che il giusto lo fanno poco, a metà; o, come mi pare di poter dire, anzitutto coloro che si accontentano di “farla”, come se fosse davvero possibile essere giusti fino a un certo punto, a comando o ad orario: fare insomma giustizia part-time, a tempo determinato.È un atteggiamento pericoloso: a “fare giustizia” in uno scampolo di presente si finisce infatti per “giustiziare” i germogli del futuro nella nostra stessa vita. La parola del Vangelo, invece, è sorprendente: ad essere oggetto di beatitudine è anzitutto il fatto stesso di anelare alla giustizia, non immediatamente il fatto di “farla”; è questo – un atto di desiderio e di slancio – l’impegno primario che “merita” la felicità e, nella logica del paradosso, la consegue nell’atto stesso di rincorrerla, pregustandola in voto prima di raggiungerla de facto. A tempo indeterminato. Beati, dunque, sono gli affamati e gli assetati; non ovviamente per lo stato di bisogno, deprecabile in sé, ma per l’anelito a superarlo che esso suppone o provoca. A costoro è promessa la sazietà, ma la beatitudine è anzitutto nella tensione che scaturisce dal vuoto dell’indigenza. Con una differenza sostanziale: chi vi si adagia fa della fame la sua tomba; chi invece solca il vuoto della mancanza a larghe bracciate, proteso verso un orizzonte sperato, voluto, amato, lo raggiungerà, ma prima ancora, proprio nel tendervi, è beato.Il centro è dunque la tensione, lo scarto, il non-detto esplosivo che i due poli – la fame e la sazietà – lasciano intravedere, presupponendo l’atto volitivo (che però è in se stesso dono) del suo superamento. La giustizia non è solo un traguardo, eventualmente raggiungibile per inerzia o per grazia; non è neanche solo un progetto, edificabile con i mattoni della legalità (sicché, ingenuamente, a fare giustizia sarebbe anzitutto e automaticamente il diritto). È un cammino, uno snodarsi di sfide e di possibilità, tra grazia e merito, un campo complesso in cui germoglia il fiore della beatitudine, preludio di frutti di maturità e di gioia.Si capisce che sulla strada di questa beatitudine si erge forte una tentazione; è la tentazione adombrata e descritta con fine ironia dal Manzoni quando l’atteggiamento di coloro che «s’adombrano delle virtù come de’ vizi, predicano sempre che la perfezione sta nel mezzo; e il mezzo lo fissan giusto in quel punto dov’essi sono arrivati, e ci stanno comodi» (cap. XXII). Ecco, noi rischiamo di fermarci nel mezzo, di saziarci del nostro sentirci “a posto”. Ma Gesù ci dice: beati quelli che non si accontentano, che hanno fame e sete di giustizia, che non si limitano al rispetto formale della legge, che non pensano di essersi meritati quello che hanno.Ecco allora il rilancio evangelico: non accontentarsi. Come la fame non si sazia una volta per tutte, così è per l’anelito alla giustizia. L’insegnamento è forte ed esigente: non tirare troppo presto i remi in barca; non dismettere l’abito da lavoro per vestire troppo presto quello della festa; non demandare pigramente al dono altrui (provenisse anche da Dio) ciò che l’impegno quotidiano dovrebbe se non guadagnare almeno saper porre in agenda. Perché la giustizia si costruisce, in primis, e poi si chiede. E prima ancora si desidera.La prassi cristiana ha tanto da interrogarsi: è infatti spesso minata da una subdola forma di assistenzialismo spirituale, che rincorre, come riserva escatologica, il dono di una salvezza che ci si accontenta di invocare, in un’attesa passiva e indolente. La giustizia di molti è senz’altro figlia del «venga il tuo regno, come in cielo così in terra», ma dimentica l’appello dell’Ascensione: «Perché state a guardare il cielo?» (At 1,11).Una seconda considerazione, legata al carattere primario del bisogno di giustizia, riguarda la misura del perseguire la giustizia stessa. È sempre urgente operare una misurata distinzione tra giustizia e vendetta, per scongiurare la logica di un giustizialismo che sembra imperversare in molti contesti odierni. In tal senso, dobbiamo ammettere che la massificazione delle comunicazioni globali non aiuta l’odierno spettatore di notiziari e talk show. Il pensante stordimento mediatico non agevola il discernimento tra l’informazione e il suo veicolo, e non di rado accade che la prima venga trasmessa con un (voluto) ricarico emozionale che ne pregiudica la corretta recezione. Dal tam tam delle comunicazioni nascono così orde di indignati che si ergono a giustizieri, fomentati da un’informazione stilizzata e sovraccaricata di stereotipi e di polarità ad effetto. Davanti a simili banalizzazioni urge sempre e comunque chiedersi quanto spazio sia davvero riservato alla giustizia nelle sue dimensioni ed esigenze più radicali e profonde. Avere sete della giustizia non vuol dire avere sete di sangue, e questo vale ancor di più se poniamo come orizzonte di riferimento quello biblico. In esso essere giusti significa sostanzialmente allinearsi a Colui le cui vie sono buone e rette. Anelare alla giustizia è anelare a quella rettezza di via che si fa obbedienza, desiderio ardente di ordine e bellezza. La rettezza del giusto è certamente infiammata dallo zelo, ma si esprime come fame e sete di essere perfetti come perfetto è il Padre dei cieli (Mt 5,48).
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