venerdì 16 settembre 2016
​Città simbolo della convivenza tra religioni, cerniera storica tra Asia e Occidente, scrigno d'arte tutelato dall'Unesco: ma l'abbiamo lasciata distruggere. (Andrea Riccardi) 
Salviamo Aleppo, Sarajevo del Duemila
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Ho conosciuto la guerra da vicino a trentadue anni in Libano, vedendone il volto orribile: distruzioni, impazzimento… a Beirut nel 1982. Ricordo una Beirut distrutta, sventrata, con i palazzi crivellati. Ricordo la vallata della Bekaa, piena di miliziani. Un’impressione forte facevano i campi-profughi palestinesi di Sabra e Shatila. Qui i kataeb, miliziani della Falange, fondata da Pierre Gemayel, cristianolibanesi, uccisero i palestinesi, distruggendo con i bulldozer le povere casette provvisorie: gli israeliani, che guardavano a non molti metri, avevano dato l’assenso. La mattanza durò dal 16 al 18 settembre 1982. Ci furono dai 700 ai 3.500 morti. Vidi le donne e i bambini celebrare quel lutto tra le rovine. Mi colpì vedere, sul muro di una casetta sventrata, alcune piccole immagini cristiane. Lì c’erano palestinesi cristiani tra la maggioranza sunnita. I falangisti libanesi li avevano colpiti ugualmente. Eppure, allora, in Libano si parlava di guerra di religione: islam contro cristianesimo. Il che è avvenuto in modo crescente successivamente, tanto che oggi stentiamo a dubitare che le religioni facciano la guerra o addirittura ne siano il principale motore. Ha ragione papa Francesco che, quasi con brutalità, ha ricordato: «Quando parlo di guerra, ne parlo sul serio, ma non si tratta di un conflitto religioso perché tutte le religioni vogliono la pace. Qui si tratta di guerre fatte per interessi, soldi, risorse, dominio di popoli». Non era guerra di religione a Sabra e Shatila. In tanti conflitti dubito sull’esistenza di guerre di religione, anche se dobbiamo essere attenti alla dimensione religiosa della guerra, della pace e della vita: attenti a sottrarla a una logica perversa. Un’idea si è sfaldata nel secondo decennio del Duemila: le guerre loro e la nostra pace. Parlerò di una storia concreta, la Siria, che marca il nostro decennio; si è combattuta una guerra sanguinosa dal 2011: 273.000 morti, di cui 75.500 civili. Per altri il doppio dei morti. I calcoli delle stragi e delle guerre sono difficili. Metà dei siriani oggi sono sfollati. Quasi sei milioni all’estero: il 45% dei rifugiati è in Turchia e solo il 15% sono arrivati in Europa. C’è poi un mondo di scomparsi: 20.000 nelle prigioni di Assad, su cui abbiamo agghiaccianti testimonianze; 5000 sequestrati da Daesh; 2000 governativi nelle mani delle fazioni ribelli e 6000 dispersi. Un Paese distrutto. In 5 anni di guerra si è distrutto qualcosa che non può essere ricostruito: non solo la vita degli scomparsi, ma l’esistenza dei sopravvissuti. Basti l’esempio dei 13.600 bambini uccisi, un settimo delle vittime nel conflitto. Molti piccoli sopravvissuti non vanno a scuola da tempo. Scrive Miguel Benasayag: la «categoria dell’infanzia è in via di dissolversi ». I bambini sono vittime della guerra più degli adulti. Durante l’assedio di Aleppo ben 130.000 bambini erano a rischio per fame e assenza di medicine – ha denunziato l’Unicef. Nel 2014 avevo lanciato un appello Save Aleppo, per una 'città aperta' con una tregua. Bisognava salvare Aleppo per quello che significava. Aleppo, con le stratificazioni della storia, rappresenta la città del vivere insieme. È un crocevia, una sutura tra Asia e Mediterraneo. Un passaggio de- cisivo sulla Via della Seta tra l’impero cinese e quello romano. La tradizione vuole che Abramo – figura cui ebrei, cristiani e musulmani si riferiscono – abbia soggiornato nella collina della cittadella (ora gravemente danneggiata). L’Unesco, nel 1986, dichiarava Aleppo 'patrimonio dell’umanità'. La stratificazione della convivenza si rifletteva in un tessuto urbano in cui monumenti e case storiche erano al centro di un reticolo di vita. Non intendo dare un’immagine mitica. La città metteva insieme gente diversa con una levigata sapienza. Aleppo è stata rifugio per i resti delle bufere della storia. Qui, nel 1915, approdarono i deportati armeni. Aleppo era un laboratorio di vita comune, forgiato nei secoli, anche se il regime di Assad era duro e occhiuto. Solo gli ebrei erano stati mandati via in larga parte fin dal 1947 con il nazionalismo antisemita arabo e la nascita dello Stato d’Israele. La qualità di vita delle minoranze è un indicatore di pace. La cultura aleppina era frutto di contaminazioni. Ad Aleppo, cristiani e musulmani vivevano bene: si visitavano per le feste e lavoravano insieme. Ho conosciuto bene il clima umano di questa città impregnata di cultura e mercato. La sua convivenza era risposta e proposta a un mondo che s’interroga su come vivranno in pace i fedeli delle due religioni. Uno dei grandi problemi della pace è ancorare robustamente le religioni a una pratica pacifica, perché non siano travolte nella legittimazione dell’odio. I cristiani erano 300.000 ad Aleppo, terza città cristiana del mondo arabo. Greco-cattolici ortodossi, siriaci, protestanti e altre denominazioni. Molte chiese, un quartiere cristiano. Ricordo un vescovo siriaco, Mar Gregorios Ibrahim, la cui famiglia fuggì i turchi da Mardin nel 1920 in Siria, nella Jazira. Gregorios, nominato vescovo ad Aleppo, era mio amico, uomo di relazioni con i musulmani, lo Stato e tanti altri. Quando si combatteva attorno alla città, uscì con il vescovo ortodosso forse per riscattare alcuni correligionari rapiti. Non sono più tornati dal 2013.  Tra il 1992 e il 1996, l’assedio di Sarajevo fu un simbolo. Morirono 12.000 persone. Non voglio fare contabilità tristi, ma ad Aleppo ne sono morte molte di più. Aleppo è la Sarajevo del Duemila. Ma non c’è stata mobilitazione. Ci contentiamo di salvare la nostra pace, difendendoci dagli sbarchi. Impossibile: quella guerra travolgerà anche noi. Non si poteva salvare Aleppo? Aver profanato un patrimonio dell’umanità mostra la barbarie dei combattenti e l’irresponsabilità della comunità internazionale. Si doveva trovare subito il filo della tregua che ora vede Russia e Stati Uniti assieme. Le rovine di Aleppo, città fantasma con gli scheletri dei palazzi, tra cui vive ancora la gente, sono un atto di accusa. Aleppo è stata stretta da un duplice assedio: i ribelli (tra cui Al Nusra legata a Al Qaeda – ora Abhat Fatah Al-Sham) alla città vecchia dov’erano rifugiati i cristiani; quello alla parte dei ribelli, abitata da 300.000 musulmani, assediati da Assad, hezbollah libanesi e iraniani. Barili-bomba siriani su questa parte, missili sull’altra. Una  coraggiosa giornalista, Francesca Borri, ha scritto: «È una guerra del secolo scorso, la guerra di Aleppo, è una guerra di trincea combattuta a colpi di fucile. Ribelli e lealisti sono così vicini che s’insultano mentre si sparano – al fronte, la prima volta non ci credi: queste baionette pensavi che non si usassero più dai tempi di Napoleone, oggi che la guerra si fa con i droni. Invece qui si combatte metro a metro, con quella lama legata alla canna e cariata di sangue, perché è davvero una battaglia corpo a corpo, i cani randagi fuori si contendono un osso di tibia. Anche se non sono che pretoriani di un impero di morte». Guerra incistata tra le macerie. Washington Post parla anche di una «miniguerra mondiale». È un game pericoloso – si pensi all’aereo russo abbattuto dai turchi –, che rischia innalzamenti di tensione. Nessuno ha avuto interesse a salvare Aleppo. Non i 'ribelli', che occupano la parte della città attaccata. Daesh, per mesi, è stata ebbra della proclamazione del califfato né – mi pare – le vite umane abbiano valore nella sua visione totalitaria. Il mondo dell’opposizione, frantumato in conflitti, non ha colto come salvare Aleppo fosse segno di maturità. Non interessava a chi ha creduto di guadagnare con il caos, come Turchia o Arabia Saudita o Qatar. Dispiace dirlo. Non va assolto il governo di Damasco, che – con tante crudeltà – s’è squalificato bombardando il suo popolo. Per molti, con alcune ragioni, Assad è il male minore. Ma è il male! Quanto scialo di tempo e di vite umane, avvenuto per il fanatismo di alcuni e il perseguimento cinico dell’interesse di troppi! È mancato un coraggioso realismo della pace, capace di comporre i di- versi interessi, ma con lo scopo prevalente della sopravvivenza di Aleppo: l’interesse dei viventi e di una cittàsimbolo. Pur di non trattare con i russi, americani e occidentali hanno confidato su forze divise, radicalizzate, trasformiste, anche se non sono mancati combattenti per la libertà come molti curdi. Bisognava negoziare presto! Non si è voluto capire che – con la guerra – tutto era perduto. Le rovine di Aleppo testimoniano come settarismo, idiozia di potenti e cinismo abbiano perso per sempre la città del vivere insieme. Forse alcuni saranno contenti. Salvare Aleppo poteva essere una battaglia di civiltà. Voleva dire: abbiamo capito cos’è la pace! Negli anni Novanta, con la Comunità di Sant’Egidio, sono stato mediatore nel conflitto civile in Mozambico, auspice il governo italiano: più di due anni di negoziati. Alla fine la mediazione, che non aveva alcun interesse di parte, ha fatto prevalere la domanda di pace che veniva da un popolo di 13 milioni di abitanti, ridotto allo stremo, coinvolgendo la comunità internazionale. Una storia di successo. Allora era un altro mondo. Oggi, in quello globale, l’instabilità dei conflitti si comunica, mentre si aggrovigliano politiche e interferenze tipiche di un mondo multipolare. Oltre al bipolarismo russo-americano, tanti Stati possono aiutare la guerra, ma non riescono a fare la pace. Le opinioni pubbliche sono distratte nell’impotenza. Nel settembre 2013, per un momento, Francesco risvegliò il mondo, chiedendo non si bombardasse la Siria. E non avvenne! Bisogna risvegliare la gente sul tema della guerra. Nella guerra globale di Siria, abbiamo visto i governi prigionieri di cinismo e tatticismo. Nel confronto con essa, ricomprendiamo il valore della pace nel XXI secolo. La pace concreta deve ridiventare un tema d’interesse in una società conflittiva, non fosse per l’educazione alla sfida quotidiana della competizione. Deve risorgere l’interesse per la pace. Senza un movimento per la pace, questa non sarà raggiungibile con i rituali della diplomazia multipolare. Per costruirla, bisogna ripartire dalle situazioni di guerra: senza accettarla più, anche se con realismo. I cittadini d’Europa possono far molto, utilizzando la pace di cui godiamo e la possibilità di pressione e comunicazione. Ha scritto Bauman: «La fitta rete di interdipendenze ci rende tutti oggettivamente responsabili delle sofferenze altrui ». Internet è veicolo di attrazione alla violenza: un movimento di pace può servirsi degli stessi strumenti. Spero in un nuovo protagonismo civile sullo scenario internazionale. Tra l’altro, lo scenario internazionale e nazional-locale non sono così lontani. Agire per la pace ha una presa locale, nel mondo delle periferie urbane e nella realtà frammentata della società. Qui c’è una grande sfida, che il terrorismo ha colto: incanalare la radicalizzazione delle giovani generazioni (specie musulmane) contro le violenze. Qui bisogna ricreare tessuto umano e comunitario in società e periferie troppo conflittuali, atomizzate. L’integrazione, ad esempio, è una sfida di pace, anche se ancora aspettiamo una legge sulla cittadinanza ai figli d’immigrati. Non è che un aspetto di un’azione che deve riprendere nella società e sugli scenari del mondo. La città, i singoli hanno nuove possibilità nel mondo globale. Noi abbiamo la pace, da non consumare in una specie d’isolazionismo impotente. Le grandi catastrofi possono mettere in movimento le coscienze. La nostra pace è una chance, non un salvagente cui aggrapparsi.
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