martedì 25 ottobre 2016
Il 4 novembre di cinquant’anni fa l’alluvione che si portò via trentacinque vite e danneggiò gravemente il patrimonio culturale
Papa Paolo VI saluta i fedeli in Duomo nel Natale del 1966 (Archivio Firenze promuove)

Papa Paolo VI saluta i fedeli in Duomo nel Natale del 1966 (Archivio Firenze promuove)

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«Siamo venuti qua nel giorno della tenerezza e della fortezza dell’amore per piangere con voi. Fiorentini, ai cento titoli che voi potete avanzare per la nostra affezione, si è aggiunto un altro titolo che ci ha messi in cammino: il vostro dolore, così grande, così singolare, così fiero e degno». L’omelia pronunciata da papa Paolo VI dall’altare del Duomo di Firenze nella notte di Natale del 1966 segnò l’inizio della rinascita della città che meno di due mesi prima era stata colpita dalla furia dell’Arno. Dopo la messa, a tarda notte, il Santo Padre volle recarsi al giardino di Boboli, dov’erano state stipate tante opere d’arte distrutte, e si fermò a pregare davanti allo straordinario Crocifisso del Cimabue, «la vittima più illustre dell’alluvione», il capolavoro ligneo del XIII secolo che per ore era rimasto a galleggiare nell’acqua sporca di nafta della basilica di Santa Croce. Oltre ai capolavori di Cimabue, Ghiberti, Donatello, Vasari e tante altre opere d’arte uniche al mondo, l’alluvione aveva causato la morte di trentacinque persone in tutta la provincia di Firenze, distrutto abitazioni e attività commerciali, aveva spazzato via le antiche botteghe artigiane del quartiere di San Frediano, colpendo il cuore identitario della città e facendo scomparire uno dei settori più importanti per il restauro delle opere d’arte. A subire i danni più ingenti, a causa della sua prossimità al fiume, era stata la Biblioteca nazionale centrale, che divenne sin da subito il simbolo di quella catastrofe. L’acqua la invase fino a sei metri di altezza e distrusse per sempre alcune delle sue opere più antiche e preziose.Molti esperti ipotizzarono per recuperare il patrimonio artistico della città ci sarebbero voluti almeno trent’anni.

All’epoca sembravano ipotesi pessimistiche ma oggi, a mezzo secolo esatto di distanza, è ancora difficile quantificare con esattezza quante opere restino ancora da recuperare – se mai saranno recuperate. Appena tre anni fa, al termine di un complicatissimo restauro, il Crocifisso del Cimabue è finalmente tornato nella sacrestia della basilica, dov’è stato collocato in posizione sopraelevata per evitare rischi in futuro, mentre il costosissimo intervento di recupero di un altro capolavoro gravemente danneggiato dalle acque, il grande dipinto dell’ Ultima cena di Giorgio Vasari, è stato concluso da pochi mesi.Fin dall’indomani di quel tragico 4 novembre i fiorentini si erano rimboccati le maniche per ricostruire quello che il fango aveva cancellato in poche ore. L’ondata emotiva di quella tragedia – unita alla fama internazionale di Firenze – aveva innescato una mobilitazione mai vista prima d’allora. Sin da subito erano state organizzate squadre di volontari che lavoravano giorno e notte per portare i primi soccorsi agli alluvionati, per aiutare la gente a ripulire case e negozi, a censire i danni, a trovare un alloggio agli sfollati, spesso senza aspettare l’iniziativa dell’amministrazione cittadina e dello stato.

La disperazione fu messa da parte per lasciare spazio alla volontà di “risorgere dal fango”, come raccontano molto efficacemente Franco Mariani e Mattia Lattanzi nel libro Firenze 1966: l’alluvione. Risorgere dal fango (Giunti, pagine 416, euro 28,00). Grazie a una straordinaria raccolta documentaria il volume ricostruisce la memoria di quella catastrofe proprio mentre Firenze si appresta a commemorarne il cinquantesimo anniversario. Un lavoro dettagliatissimo, corredato da decine di testimonianze e fotografie, che dà vita a un affresco drammatico eppure carico di forza, di speranza e di gratitudine nei confronti dei tantissimi che giunsero da tutto il mondo per contribuire alla rinascita di un luogo considerato patrimonio dell’umanità. Un libro che ha il grande pregio di riportare alla luce vicende sepolte in un silenzio che è stato spesso favorito anche dalla discrezione di chi è abituato a lavorare lontano dai riflettori. Come i monaci dell’abbazia di Grottaferrata, nei pressi di Roma, che furono inviati a Firenze da Paolo VI per recuperare un migliaio di volumi di grande pregio che vennero poi portati nel loro cenobio di preghiera, che è anche sede di un antico laboratorio di restauro e conservazione di libri, codici e documenti. Altri preziosi volumi provenienti dall’Opera del Duomo, dall’Archivio di Stato e dalla Biblioteca Nazionale furono invece portati in Vaticano, al laboratorio di restauro scientifico del libro. La piena del fiume sommerse la città ma dette vita anche a una grandiosa catena di solidarietà, con migliaia di giovani volontari che in quel novembre 1966 arrivarono da tutta l’Italia e anche dall’estero per contribuire alla rinascita del capoluogo toscano e delle sue opere d’arte.

Tra gli “angeli del fango” ci sarebbero stati anche alcuni futuri vescovi (Gianni Ambrosio, Mansueto Bianchi, Diego Coletti, Nunzio Galantino, Luigi Marrucci e Luciano Monari) e persino tre futuri cardinali: Angelo Scola, Gualtiero Bassetti e l’attuale arcivescovo di Firenze, monsignor Giuseppe Betori. Il libro di Mariani e Lattanzi riporta le testimonianze e i ricordi di ciascuno di essi, e racconta vicende rimaste finora pressoché ignote, come quella di Bassetti, all’epoca curato della chiesa fiorentina di San Salvi, che insieme a due giovani mise in sicurezza decine di bidoni di idrocarburo stipati in un magazzino vicino alla sua parrocchia, scongiurando un’esplosione che avrebbe provocato danni ingenti e gravi rischi per le persone. Il cinquantesimo anniversario dell’alluvione di Firenze del 1966 lascerà spazio a grandi commemorazioni ma sarà anche tempo di bilanci non sempre incoraggianti. Finora, come ricorda questo volume, sono stati spesi circa 150 milioni di euro per mitigare il rischio idraulico del fiume ma purtroppo le opere infrastrutturali necessarie per ridurne la pericolosità – considerate priorietarie già oltre un decennio fa – restano tuttora lettera morta a causa di inadempienze, ritardi, commissariamenti, soldi mai stanziati o non ancora spesi.

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