sabato 20 febbraio 2016
Prosciolta un’altra coppia italiana che aveva pagato una donna in Ucraina.
Sull’utero in affitto è assoluzione continua
COMMENTA E CONDIVIDI
Una nuova sentenza ha sdoganato in Italia la maternità surrogata, dimostrando ancora una volta come il divieto imposto dalla legge 40 sia facilmente aggirabile: basta che l’utero sia affittato all’estero, in un Paese che consente la pratica, per veder riconosciuti in Italia i suoi effetti. Il dispositivo della pronuncia è stato letto l’altro giorno dalla Corte d’appello di Milano: ribaltata la sentenza di primo grado, che aveva condannato due coniugi della Valle del Seprio (Varese) – ai tempi dei fatti, quattro anni fa, lui era 61enne, lei 58enne – per false dichiarazioni a pubblico ufficiale, ne ha disposto l’assoluzione.I due, volendo un figlio pur non essendo più in grado di procreare, erano volati in Ucraina presso una clinica specializzata della capitale. Lì avevano "ordinato" i bimbi, che poi – dietro pagamento – erano stati concepiti in provetta col seme di lui, gli ovociti di un’anonima "donatrice" (anch’essa ricompensata in denaro) e poi impiantati nel grembo di un’altra donna ancora che aveva condotto la gravidanza e li aveva partoriti. In base alla legge ucraina, poi, i due committenti italiani avevano potuto ottenere un certificato di nascita che li definiva genitori. A questo punto era entrato in gioco il diritto internazionale: la coppia varesina aveva dovuto recarsi presso la cancelleria consolare dell’ambasciata italiana a Kiev per chiedere la trasmissione dell’atto al Comune di residenza. Attenzione: gli stessi, tacendo le circostanze in cui erano venuti al mondo quei due bimbi, avevano dichiarato di essere i loro veri genitori. Ma i funzionari italiani in Ucraina non sono nuovi a questo tipo di traffici. E quando sospettano che il certificato di nascita ha a che fare con un caso di maternità surrogata hanno da Viminale e Farnesina ordini ben precisi: trasmettere l’atto ma comunicando notizia di reato alla Procura italiana competente per territorio. Varese, nel caso specifico. Qui parte l’indagine giudiziaria, e presto emerge che, geneticamente, quei bimbi sono figli dell’uomo ma non anche di sua moglie. Scatta quindi l’imputazione per false dichiarazioni a pubblico ufficiale (i funzionari consolari) finalizzate alla recezione di notizie false in atti di stato civile. Il Tribunale di Varese condanna, ma la coppia ricorre in appello a Milano. E vince. Su quali motivazioni? Al momento, non lo si può dire con certezza: la Corte ha due mesi di tempo per depositare la sentenza integrale, quella con i ragionamenti giuridici sulla scorta dei quali ha deciso. Per ora, dunque, ci si può basare solo sul contenuto dell’atto difensivo vergato dall’avvocato della coppia, che sembra aver impostato il processo su due capisaldi. Innanzitutto, il fatto che i due non avrebbero detto nulla di falso perché secondo la legge ucraina erano davvero i genitori (le convenzioni internazionali farebbero prevalere l’atto formato secondo la legge del luogo in cui è stato rilasciato). Poi il difensore aveva ricordato ai giudici la condanna dell’Italia – pronunciata il 27 gennaio 2015 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) – comminata per il fatto che il Tribunale dei minori di Campobasso aveva sottratto a un’altra coppia committente 2 bambini nati in circostanze simili (in Russia). Vicenda che per i giudici di Strasburgo aveva pregiudicato il «miglior interesse del minore». Per la verità, entrambe le argomentazioni erano già state smontate in un altro caso ancora dalla Corte di Cassazione, il nostro maggiore organo giudiziario, alla cui interpretazione dovrebbero uniformarsi tutte le magistrature di rango inferiore. Non solo. La sentenza Cedu è tuttora oggetto di ricorso presso la Grande Chambre (l’organismo di appello), per cui anche questa sentenza potrebbe essere rovesciata. Rimane un’evidenza: chi affitta un utero all’estero, quasi sempre la fa franca. In barba alla legge 40.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: