martedì 21 maggio 2013
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Il tramonto di un’Italia volgare e corrotta, invecchiata malamente in un triste e atonico vuoto morale. Un’Italia piombata nell’abisso di un’irrimediabile perdita di senso, che ha sepolto la propria bellezza sotto una crosta di insostenibile superficialità e stordimento. Un’Italia grottesca, popolata da personaggi mostruosi, come gli invitati all’assordante festa mondana che nel film arriva a pochi minuti dall’inizio, dopo la contemplazione di una Roma vuota e silenziosa, quasi collocata in un’altra dimensione. E così, come ne Il grande Gatsby di Luhrmann, la bolgia spaventosa che danza sulle note della Carrà diventa metafora della fine del mondo. Del film di Sorrentino, La grande bellezza, unico italiano in competizione a Cannes, si era già detto molto. Ad esempio, che è una sorta di remake, riveduto e aggiornato, de La dolce vita (Palma d’Oro a Cannes nel 1960) dove Fellini raccontava un mondo putrescente senza più punti di riferimento. Come Marcello Mastroianni, anche Toni Servillo è uno scrittore, il disincantato, ironico Jep Gambardella, sincero e allergico a ogni ipocrisia, che dopo un solo romanzo ha abbandonato le proprie ambizioni letterarie per lasciarsi travolgere dal nulla, dedicandosi a un giornalismo vacuo e mondano. Come un novello Virgilio ci conduce tra i gironi infernali di una città perduta, popolata da nani e ballerine, cialtroni e pseudointellettuali, artisti falliti e giornalisti prezzolati, nobili in affitto, politici corrotti, chirurghi plastici venerati come santoni e un certo clero più interessato alla mondanità che alla propria missione pastorale.Affresco corale che vede nel foltissimo cast anche Sabrina Ferilli, Carlo Verdone, Carlo Buccirosso, Luca Marinelli, Galatea Ranzi, Pamela Villoresi, Anita Kravos, Giusi Merli, Roberto Herlitzka, Iaia Forte, il film cosceneggiato da Sorrentino con Umberto Contarello è un vero e proprio pugno nello stomaco che lascia lo spettatore in balia di un grande sconcerto. Il talento del Sorrentino regista non si discute: sono moltissime le scene dei suoi film rimaste indelebili nella memoria del pubblico e anche in questa occasione ci regala degli straordinari, poetici e visionari momenti di cinema. Quello che convince meno è una sceneggiatura che scivola nel sentenzioso, che accumula citazioni letterarie e scolpisce nella pietra frasi destinate a risultare ridondanti, perché sovrapposte a immagini forti già capaci di raccontare tutto. E se ne Il divo il regista si misurava con l’affascinante natura del potere e l’enigma di un personaggio complesso, questa volta, alle prese con l’abisso esistenziale delle sue disprezzabili creature, sceglie un nichilismo che toglie il fiato. Certo, alcuni personaggi di segno opposto lasciano filtrare un raggio di speranza: la Ramona interpretata dalla Ferilli è a disagio con le menzogne e le ipocrisie di quel triste mondo e il Ramon di Carlo Verdone, deluso da Roma, decide di tornare "al paese" per recuperare valori più autentici. E soprattutto, a fronte del vanitoso monsignore di Roberto Herlitzka c’è la Santa, una religiosa (ricalcata sulla figura di Madre Teresa di Calcutta) che ha dedicato la propria vita agli ultimi dell’Africa, che ai palazzi romani e ai soffici letti dei grandi alberghi preferisce il duro pavimento, che rifiuta un’intervista a Gambardella perché «la povertà la si vive, non la si racconta» e che su una terrazza all’alba siede circondata da fenicotteri pronti a volare via al suo soffio. Una suggestiva immagine di serenità che però non è sufficiente a riscattare lo squallore di un caravanserraglio dove personaggi troppo schematici per suscitare passioni non riescono a restituire il dolore e complessità di un’umanità alla deriva.
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