venerdì 5 aprile 2019
L'editore Casagrande di Bellinzona propone una seconda edizione delle Memorie di una contadina raccolte e trascritte «parola per parola sotto dettatura» dalla giovane cognata di Tolstoj, Tat'jana, ma riviste dallo scrittore, che l'aveva spinta all'impresa e in qualche modo supervisionata, indirizzata. Vennero pubblicate su rivista nel 1886 e in volume nel 1902, tradotte in italiano presso Treves nel 1924 in una traduzione dal francese incompleta, ripresa più tardi da Carabba nell'edizione in cui le scoprii, su una bancarella romana, tantissimi anni fa. Come autore figurava, se ben ricordo, il solo Tolstoj mentre qui compare giustamente anche quello della cognata, Tat'iana Kuzminskaja. Le ha tradotte dal russo per Casagrande Isabella Panfido unendovi una postfazione utile a ricostruirne la storia ma anche a metterne in luce le qualità: il racconto veritiero e preciso di come vivevano i contadini nella Russia degli zar, e la grazia - non mi viene in mente un'altra parola - che guida la contadina Anisja nel tornare con dolente serenità alla storia della sua vita e delle sue pene, ma anche dei suoi incontri e dei suoi affetti, del contesto culturale di cui era partecipe, con i suoi riti e le sue credenze; in definitiva, i modi in cui, nella sua esistenza, ella seppe coniugare fede, speranza e carità. C'è una grande vicinanza tra ciò che Anisja dice del suo mondo e della sua vicenda e quello che di personaggi immaginari simili al suo ha narrato Tolstoj nei suoi racconti e romanzi (e altri ancora come Leskov e Turgenev) . Ma non è solo di questo che mi sembra interessante oggi parlare, bensì di un modo di "fare inchiesta" che partiva senza saperlo da esempi come quello di Tolstoj, e che fu molto seguito, tanti anni dopo, nella cultura americana (penso ai sociologi della "scuola di Chicago", penso a James Agee al tempo della "grande crisi") e in particolare in quella italiana del secondo dopoguerra: la raccolta di "storie di vita" a cui si accinsero intellettuali della levatura di Rocco Scotellaro, Luciano Bianciardi e Carlo Cassola, Danilo Dolci, Franco Cagnetta, Danilo Montaldi, Franco Alasia e altri ancora. Un repertorio, un panorama di esistenze proletarie e contadine che non era mediato dalla curiosità e dall'immaginario di uno scrittore o dal racconto di un giornalista, ma che arrivava direttamente dal vissuto di chi era infine messo in grado di parlare in prima persona. La penna o il registratore di uno scrittore o studioso di valore venivano messi a disposizione di chi altrimenti non avrebbe avuto modo di dire in prima persona le sue esperienze, la sua condizione. Un secondo momento di questo metodo stava nascendo quando, nel 1990, Oreste Pivetta offrì la sua penna al racconto di un immigrato africano in Italia, Pap Kouma, Io venditore di elefanti (Garzanti), ma quest'esempio non ha avuto molto seguito, e tanti hanno invece preferito servirsi delle storie carpite agli immigrati o ad altri "soggetti sociali", come si si dice oggi freddamente, per farne romanzo, dimenticando spesso di ringraziare le persone a cui avevano rubato le loro esperienze.
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