venerdì 6 dicembre 2019
È impressionante, anzi direi mostruosa, la quantità di persone che usano il computer come fosse un selfie, a sfogo del loro narcisismo, a conferma della propria esistenza... Lo sciame, li chiama un socio-filosofo dei nostri giorni, Byung-Chul Han, che insegna a Berlino ed è edito in Italia da nottetempo. Uno sciame non di api operose e coordinate, piuttosto di calabroni impazziti che si agitano ognuno per sé, in perfetta ed esaltante e massiva solitudine rotta da provvisori incontri determinati dal bisogno di reciproci riconoscimenti. Uso il computer solo in certe ore, per la posta o per la ricerca di qualche vecchio film o di qualche informazione importante - per la pigrizia di non tornare ogni volta alla gloriosa Enciclopedia Europea garzantiana di tre o quattro decenni addietro, che mi pregio di conservare per la ricchezza delle sue voci maggiori, anche se so di fare la figura di un sopravvissuto di un'epoca passata. La categoria di persone più fastidiosa, sì, come uno sciame di calabroni ronzanti che girano a vuoto inebriati dal loro girare e dai loro ronzio (molti dei quali di mezza età, convertiti allo sciame e non cresciutici dentro) non è quella che un amico insegnante nelle medie chiama gli "zombetti" riferendosi alle ultime generazioni, vedendoli quasi come appendici di macchine. La convinzione di Simone Weil che il sogno dell'uomo del Novecento è stato quello di diventare una macchina, l'uomo del Duemila la sta forse prepotentemente realizzando - ma sono convinto, sempre di più, che un educatore ha il dovere di essere ottimista, se vuol combinare qualcosa con e per i suoi allievi e di conseguenza anche per sé, pur quanto sia, di suo, tremendamente e razionalmente pessimista sulle sorti del mondo, dell'umanità. No, la categoria più patetica e compassionevole è per me, e non solo per me, quella degli schiavi del computer che inondano l'etere delle loro esaltate, talora isteriche, affermazioni di esistere criticando tutti e sentendosi potenti per questo. Chiusi nel proprio guscio e incapaci di vedere, sentire e pensare, perché troppo presi dal sé. Dentro questa categoria, i peggiori sono quelli che, della generazione che va dai trenta ai cinquanta, si sentono vivi solo davanti (dentro) a un computer e ritengono di esistere perché criticano, con ciò cercando rimedio alla propria fragilità, ed esibendosi e compiacendosi della loro superficiale apparenza come nei selfie. Una recita che non può mai farsi davvero presenza, anche se c'è chi potrà farlo per loro, rappresentando le loro frustrazioni nella politica, facendosene forte. I peggiori tra loro, i meno perdonabili, sono quelli che riescono, secondo le regole della società dello spettacolo, a saltare sul carro delle novità, delle mode, del mercato delle idee (il sistema di cui siamo parte sa far merce di tutto) facendo spettacolo perfino del disastro ecologico, delle tragedie dei migranti, delle ipotesi di fine del mondo. È questa una novità propria di questa società, che serve a far accettare (e a preparare) il male che ci sovrasta e ci minaccia.


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