venerdì 28 giugno 2019
Ci sono cose molto più serie di cui è doveroso parlare, ma vorrei ora limitarmi a qualcosa di secondario e che però ha il suo peso nella vita quotidiana di chi si occupa, come me, anche di libri, di cultura. È l'aumento macroscopico tra le persone che conosco – quelle, tante!, che si occupano
come me di libri o film eccetera o ne scrivono e fanno – del numero dei permalosi. Chi sono i permalosi? Sono coloro che si lamentano con te (anche quando non ti conoscono) perché non hai recensito il loro libro (perlopiù non eccelso, e che per la verità raramente hai letto per intero, una volta capito di che stoffa era fatto). Eppure te lo hanno mandato con tanto di dedica! I più risentiti sono scrittori e scrittrici che si considerano tuoi amici o ti conoscono da più tempo. Vale per i narratori e vale per i saggisti, i quali ultimi protestano spesso perché in un certo articolo o recensione non li hai citati, non hai ricordato le loro benemerenze oppure l'hai fatto, ma ti sei dimenticato di ricordare quel tal passo, o di citare quel tal loro collega o superiore importante, che si è occupato anche lui di quel certo autore e a cui devono qualcosa. Si lamentano a volte perché hai scelto di citare un certo passo del loro saggio o romanzo, della loro curatela o prefazione, che non era quello a cui tenevano di più. Eccetera... Si parla di libri e di recensioni, di scrittori e professori d'ogni ordine o grado, ma sarebbe assai facile allargare il campo e parlare di amici e conoscenti: anche con loro, guai a non fargli i complimenti per quella loro osservazione, per quel che fanno o dicono... Insomma, il numero dei permalosi mi sembra aumentato a dismisura nel corso degli ultimi anni, e mi sembra diventata un'impresa molto delicata quella, nel caso di gente che scrive, di non soddisfare il loro inesauribile bisogno di riconoscimenti. Da cosa viene questa insicurezza, professionale, psicologica? Tanti anni fa Giuseppe Pontiggia detto Peppo, parlando già allora di queste cose per quel che riguardava alcuni, non tutti gli scrittori che conoscevamo a Milano, mi disse che una delle caratteristiche degli scrittori era, secondo lui e forse da sempre, «la paura di non esistere». Una sorta di malattia professionale, se vogliamo. (Se ben ricordo, gli chiesi di scriverne su “Linea d'ombra”.) Evidentemente, la paura di non esistere, col bisogno che ne consegue di continui e continui e continui riconoscimenti, è diventata una malattia fin troppo comune, che ha finito per riguardare tutti o quasi, non solo gli scrittori e i professori, come constatiamo quotidianamente con i più nevrotici o insicuri e deboli dei nostri conoscenti. La "paura di non esistere" si esprimeva un tempo in una frase per tanti aspetti ridicola: «Lei non sa chi sono io!». Non la si sente più perché fa ridere, ma c'è poco da ridere delle frustrazioni odierne e del bisogno di riconoscimento, del bisogno dell'individuo di sentire che conta ancora qualcosa, non solo per la famiglia. Questo bisogno è tradito tutto o in parte dalla società in cui viviamo (e che abbiamo contribuito a edificare con la nostra passività e compiacenza). Ma per quanto riguarda scrittori e professori, ridere della loro permalosità è sempre un dovere.
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