domenica 14 febbraio 2021
C'era una volta a Milano, non so se c'è ancora, all'angolo fra via Forze Armate e via Primaticcio, un dopolavoro dell'Azienda tranviaria milanese. La sera l'ambulanza su cui facevo, a vent'anni, la volontaria, sostava a quell'angolo, in attesa delle chiamate. Nelle notti tranquille si stava lì fino alle due. D'inverno c'era una gran nebbia, di quella che non c'è più: una sostanza lattiginosa, solida. Dentro l'ambulanza faceva freddo. «Un caffè?» proponeva uno di noi. Allora in quella buia periferia di palazzi uguali era bello, l'aprirsi luminoso del vecchio dopolavoro. Profumo di caffè, tavoli di formica; la segatura per terra, quando pioveva. I tranvieri, per lo più in pensione, giocavano a carte e bevevano un bicchiere. E fumavano, quanto fumavano: c'era la nebbia, dentro, come fuori. Erano milanesi e immigrati, ma, «Alùra, tì, terùn, sè fém?», si sentiva, in un'inflessione benigna. E quanto intenti gli occhi sulle carte, e con che forza l'ultimo gettava sul tavolo, a prender tutto, l'asso di briscola. Quanto insieme erano, gli uomini del dopolavoro Atm, isola calda nell'inverno di Milano. Ripensavo a quel locale in questi mesi – ora, spero, finiti. Noi eravamo a distanza, i bar vuoti e i vecchi a casa: e mi sommergeva la nostalgia. Quanto bello e umano era, come in quel bar di periferia, stare vicini, ridere, litigare e infine dirsi: "A domani". E io, sciocca, che non me ne accorgevo.
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