lunedì 27 aprile 2020

Credo che tra gli effetti indiretti di questo virus – che non ne ha alcuna coscienza – vi sia una riforma del cristianesimo. E non dico della Chiesa cattolica, la più toccata, ma della religione stessa che il messaggio di Cristo ha inaugurato. Si tratta di una vera riforma perché si tratta di rivedere, anche se per breve tempo, l’equilibrio fondamentale creatosi tra interiorità della fede e esteriorità rituale e liturgica. Viene segnalato da più parti, e richiamato anche da papa Francesco, il rischio di degenerare in un cristianesimo digitale, che porterebbe poi a una forma simile allo gnosticismo. Rischieremmo di avere un cristianesimo improntato all’idea che è solo l’interiorità a portare alla salvezza. Questa interpretazione avrebbe il vantaggio di adattarsi meglio a una situazione di distanziamento sociale radicale. Avrebbe e ha sicuramente anche il vantaggio di riportare i fedeli a riprendere in mano la propria coscienza alla luce del Vangelo, anziché demandarla in continuazione all’istituzione. Lo svantaggio, non di poco rilievo, è che questo cristianesimo non sarebbe più basato solidalmente nel mistero dell’Incarnazione, cioè di Dio che assume pienamente la natura umana in cui avviene tutta l’opera della salvezza. Tutto rimarrebbe un po’ vago, un po’ etereo, in una forma troppo intimistica.
L’estremo opposto è costituito da un’interpretazione che rischia di fare della ritualità qualcosa di vuoto, mettendo in atto una pratica solo per la pratica, senza sostanza evangelica. Si ha la coscienza a posto perché i riti sono stati celebrati ce questo basta per nutrire la netta sensazione di aver progredito nella strada della fede. E molto probabilmente è così. Perché il principio dell’ex opere operato (per il fatto di essere posto in atto, un sacramento è segno sicuro di salvezza) di per sé garantisce, alle condizioni conosciute, la grazia di Cristo. Quest’interpretazione ha il grande vantaggio di portare il segno della garanzia ecclesiale: che di celebrazione della grazia si tratta, anche perché è il Cristo stesso ad avere istituito le azioni della Chiesa. Eppure, se tutto si gioca unicamente sulla ritualità, il rischio è di avere sì un cristianesimo ancorato alla natura umana, teologicamente fondato sull’Incarnazione, ma mancante d’interiorità, di una relazione profonda tra Cristo, la sua Chiesa e i membri della sua Chiesa. Verrebbe meno il polo divino del mistero dell’Incarnazione.
Il virus rimette in gioco quell’equilibrio dell’interpretazione cristiana che sin dai primi secoli della storia della Chiesa ha avuto luogo. La sfida fondamentale oggi sta nel continuare a mantenere la tensione di un cristianesimo pienamente interiore – o, meglio, di un Vangelo interiorizzato – che non cancelli l’opera della grazia celebrata nella comunità, garanzia certa di un cammino voluto da Dio.

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