martedì 23 febbraio 2021
C'è sempre, da due mesi, quell'amico in un reparto Covid. Addormentato in un lunghissimo sonno. (Chissà se sogna, chissà quale film si svolge in lui, ignaro del costante instancabile lavoro di medici e infermieri e macchine attorno, che lo tengono in vita). Per lui pregano, ogni sera online, in mille. La situazione, ci viene detto, è “molto grave”. E io vorrei andare dai medici, e chiedere, e avere una speranza. Ma non posso, e allora sempre più spesso, mentre faccio altro, mi rivolgo al mio amico, brusca: «Ma, allora? Ti svegli?» – e aggiungo qualche energica espressione, di quelle che erano abituali fra noi. E niente, ancora. Passo davanti al Crocefisso in cucina e lo apostrofo senza complimenti: «Dunque? Il mio amico?». Allora mi viene in mente don Camillo. Il parroco di Guareschi certo era più rispettoso, ma anche lui parlava con il Crocefisso, e di ogni cosa, ogni giorno. Quel prete, quanto l'ho invidiato: per me, Cristo era così immateriale. Era una sedia irrimediabilmente vuota. Che, nella lunga attesa della guarigione di un amico, io stia imparando a dargli del tu? Domandare e bussare, bussare ancora. Come ci è stato insegnato. Certe mattine, adesso, dico una parola al Crocefisso anch'io. Che stia imparando? Come quel prete di un paese sul Po, che amavo tanto.
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