C'è sempre, da due mesi, quell'amico in un reparto Covid. Addormentato in un lunghissimo sonno. (Chissà se sogna, chissà quale film si svolge in lui, ignaro del costante instancabile lavoro di medici e infermieri e macchine attorno, che lo tengono in vita). Per lui pregano, ogni sera online, in mille. La situazione, ci viene detto, è “molto grave”. E io vorrei andare dai medici, e chiedere, e avere una speranza. Ma non posso, e allora sempre più spesso, mentre faccio altro, mi rivolgo al mio amico, brusca: «Ma, allora? Ti svegli?» – e aggiungo qualche energica espressione, di quelle che erano abituali fra noi. E niente, ancora. Passo davanti al Crocefisso in cucina e lo apostrofo senza complimenti: «Dunque? Il mio amico?». Allora mi viene in mente don Camillo. Il parroco di Guareschi certo era più rispettoso, ma anche lui parlava con il Crocefisso, e di ogni cosa, ogni giorno. Quel prete, quanto l'ho invidiato: per me, Cristo era così immateriale. Era una sedia irrimediabilmente vuota. Che, nella lunga attesa della guarigione di un amico, io stia imparando a dargli del tu? Domandare e bussare, bussare ancora. Come ci è stato insegnato. Certe mattine, adesso, dico una parola al Crocefisso anch'io. Che stia imparando? Come quel prete di un paese sul Po, che amavo tanto.