lunedì 6 maggio 2013
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La celebrazione pubblica, e solenne, dei 90 anni di Giulio Andreotti avverrà oggi nell'aula di Palazzo Madama, l'emiciclo nel quale siede in qualità di senatore a vita dal 1° giugno 1991. Ma più di un'eco si leverà anche a Montecitorio, in quell'aula della Camera nella quale il "divo Giulio" ha affrontato dibattitti e battaglie politiche per ben 43 anni: dall'esordio al fianco di Alcide De Gasperi sino al tramonto della Prima Repubblica. E risonanze ci saranno in tanti luoghi simbolo della capitale, a cominciare dai palazzi governativi nei quali Andreotti ha abitato con ineguagliata e straordinaria sagacia e perseveranza: da presidente del Consiglio (per sette volte), da ministro della Difesa (per otto volte), degli Esteri (per cinque volte), delle Partecipazioni statali (per tre volte) delle Finanze, del Bilancio e dell'Industria (per due volte), dei Beni Culturali, delle Politiche comunitarie e - ultimo non ultimo - dell'Interno (per una volta).
 
Echi molteplici, insomma, che si arresteranno solo sulla soglia di un'altra e privatissima celebrazione - quella familiare - della rotonda ricorrenza. Ma c'è da credere che Andreotti riuscirà lo stesso a compiere quanto ieri ha annunciato in un'intervista: «Alla mia età veneranda i compleanni si festeggiano meditando in silenzio». O forse (e in fondo è quasi la stessa cosa) farà silenzio a suo modo: limitandosi a dire l'essenziale, magari nella forma fulminante della battuta. Ne è capace, in modo ormai proverbiale. Così come è stato capace - nella sua lunghissima vita pubblica - di affrontare con apparente imperturbabilità clamori amici e ostili frastuoni, applausi e fischi, esaltazioni e invettive. Così come è stato capace - portando l'atroce e infamante catena delle accuse di collusione mafiosa e lottando, con successo, per liberarsene - di farsi giudicare, lui, il potente per definizione, da semplice cittadino. Un cittadino che ha continuato a chiedersi - ecco una delle sue famose battute - «perché mai la bellissima frase "La Giustizia è uguale per tutti" sia scritta alle spalle dei magistrati». E non venga tenuta sempre davanti ai loro occhi.Giulio Andreotti è stato una delle figure simbolo della Dc: partito di raccolta dei cattolici, perno della Repubblica «nata dalla Resistenza» e motore della straordinaria ricostruzione, modernizzazione e crescita di una nazione e di una società piegate e piagate dalla guerra. Ed è stato un uomo di governo in grado di articolare visioni non scontate (e, a volte, più coraggiose di quanto gli venisse riconosciuto) e di declinare in modo mediterraneo e creativo (concretamente utile alla causa della pace) la sicura adesione dell'Italia al campo occidentale della libertà nell'era della guerra fredda. Oggi, nella sua quarta età, in un tempo in cui il pluralismo delle opzioni politiche dei cattolici è una realtà, il "divo Giulio" vive la sua dignità di parlamentare della Repubblica da rigoroso testimone di una fedele e saggia dedizione alle istituzioni e alla propria coscienza. Una pietra di paragone e, a volte, un segno di contraddizione che induce alla riflessione tanti attenti cittadini, molti nuovi politici e più di un commentatore, e che riesce persino a minare le certezze di chi meno lo stimò e maggiormente ebbe ad avversarne politicamente (e non solo) azione e "stile".
Certa cinematografia d'occasione e persino di successo ha continuato a dipingerlo come «Belzebù», e Andreotti se n'è doluto pubblicamente. Con la moderazione un po' rassegnata di chi ha contribuito a rendere celeberrimo l'adagio per cui «a pensar male del prossimo si fa peccato, ma ci si azzecca».Il tempo è però galantuomo. E almeno a una sua celeberrima sentenza - «il potere logora chi non ce l'ha» - non ha dato seguito. Andreotti ha novant'anni e non è più al potere da un pezzo, ma non è affatto logoro. E oggi raccoglierà sinceri e meritati auguri. (Avvenire, 14/01/2009)
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