venerdì 10 febbraio 2012
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​Il settimanale Time gli dedica la copertina con una domanda retorica che è insieme benaugurale e traboccante di elogio: «Ce la farà quest’uomo a salvare l’Europa?», mentre il New York Times lo accoglie con un «Saying “ciao” to Italy’s new leader», regalandogli l’asciutta definizione di «tecnocrate senza scheletri nell’armadio». È difficile non accorgersi dell’eccezionale (in inglese: terrific) recupero di immagine – una vera e propria resurrezione – che l’Italia sta compiendo sul proscenio internazionale. Sensazione diffusa a Washington come a Wall Street (a dispetto dei giudizi negativi e dei rituali declassamenti delle agenzie di rating peraltro smentiti ieri dal Fondo Monetario Internazionale) è che l’Italia stia faticosamente ma irrevocabilmente uscendo dalla palude congiunturale in cui si trovava da almeno due anni, grazie a seri sacrifici e a un prepotente e fortunato asso nella manica chiamato effetto-Monti. Un ciclone tranquillo ma inesorabile, iniziato a Strasburgo ai primi di dicembre con una ramanzina pubblica diretta ad Angela Merkel e a Nicholas Sarkozy e culminato con i vertici europei che hanno approvato a gran voce le misure anticrisi e poi quelle di crescita del governo italiano, fino alla visita di ieri negli Stati Uniti, convalida di un rapporto fra Washington e Roma che negli ultimi anni si era ridotto – come recitano i giornali americani – «alla gelida cortesia protocollare». Un miracolo? Sì e no.Nell’immaginario americano – tuttora fortemente debitore nei confronti di quel pragmatismo che dal capostipite Ralph Waldo Emerson giunge attraverso Mark Twain fino allo Studio Ovale e al suo attuale inquilino – c’è sempre stato spazio per le figure rigeneratrici, o più prosaicamente per le opportune correzioni (dal titolo del fortunato best seller di Jonathan Franzen, che non a caso Obama ha voluto leggere in anteprima) che il flusso della vita rende necessarie. Monti, il «premier europeo più amato dai tedeschi» secondo il Wall Street Journal, finisce per assumersi suo malgrado quest’onere: quello dell’uomo che salverà l’Europa dallo sfacelo dei debiti sovrani, e soprattutto – ciò che al netto degli elogi e dei cachinni di circostanza più sta a cuore al presidente americano – che impedirà al Vecchio Continente e alle sue crisi di tagliare l’erba sotto i piedi alla ripresa economica degli States, asso pigliatutto per Obama alle elezioni di novembre oppure chiodo nella bara delle sue speranze di rinnovo del mandato. Con questi auspici quasi totemici da spirito visitatore cherokee, Mario Monti sbarca nella capitale federale e in quella finanziaria d’America, accompagnato dallo sguardo vigile dei suoi ospiti sullo spread italiano, ora un po’ più confortevolmente stazionario attorno ai 345 punti, segno che l’uomo è degno di fiducia e che le correzioni apportate stanno dando i loro frutti. Alleato antico e fedele, l’Italia non è destinata a dar problemi a Washington, anche se i dossier più caldi – come la Siria, l’Egitto e l’Iran – destano grandi preoccupazioni su entrambe le sponde dell’Atlantico. Ma Monti per Obama potrebbe rivelarsi un asset multiuso e diventare la carta da giocare in Europa per limitare o quanto meno smussare le durezze, qualche miopia e il rigore troppo cocciuto del cancelliere Merkel. Ne ha le risorse e le caratteristiche – quelle che Sarkozy non ha saputo mettere in campo – e secondo non pochi commentatori una sorta di sottaciuto dovere, quasi una contropartita per calorosa cambiale di fiducia che il cuore del potere politico e finanziario americano gli ha staccato. Il Grande Correttore, insomma, avrà del gran lavoro supplementare da fare, qui da noi.
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