venerdì 26 settembre 2014
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Abbiamo lavorato molto in questi anni per costruire una scuola di pensiero dell’economia civile. Che in sintesi si propone di allargare le menti per superare tre visioni anguste e riduzioniste dell’uomo, dell’impresa e del valore per avvicinarci più speditamente al bene comune. In essa abbiamo argomentato, e continuiamo a farlo, che l’uomo è persona e non homo economicus e che la razionalità sociale (fatta di reciprocità, solidarietà, avversione alla diseguaglianza, fiducia, cooperazione) è superiore a quella del solo autointeresse producendo esiti più fertili per la persona, l’economia e la società. Che le organizzazioni produttive sono i luoghi dove si gioca gran parte delle nostre vite (e del destino della vita economica e sociale) e come tali non possono anteporre gerarchicamente gli interessi degli azionisti a quelli della creazione di valore per tutte le altre categorie interessate dalla loro attività (consumatori, lavoratori, fornitori, comunità locali). Abbiamo sottolineato con forza (ancor più adesso dopo il 'taroccamento' del Pil corretto per droga, contrabbando e prostituzione) che la «ricchezza delle nazioni» non è il Pil ma lo stock dei beni spirituali, culturali, ambientali, relazionali ed economici di cui una comunità inserita su un territorio può godere. Tutto questo non negando il valore di autointeresse, profitto e Pil, ma relativizzando tali concetti ed evitando di farli diventare degli idoli e degli assoluti. È arrivato, però, il momento di applicare i princìpi dell’economia civile a ciò che oggi ci preoccupa e ci sfida con maggiore urgenza, ovvero a tutta la sfera dei rapporti macroeconomici tra Stati, alle politiche fiscali e monetarie e ai comportamenti delle Banche centrali. È arrivato, cioè, il momento di ragionare sui pilastri della macroeconomia civile. E dobbiamo farlo, a mio avviso, partendo dalla similitudine fra i rapporti tra individui e quelli tra Stati. Anche nei rapporti tra Stati esistono le 'trappole' della sfiducia e del fallimento del coordinamento. La situazione attuale dell’Unione Europea è e simile a quella di un gruppo di individui miopemente autointeressati, prigionieri dei propri pregiudizi, dove nessuno fa un passo avanti correndo il rischio della fiducia nei confronti dell’altro e il risultato è un equilibrio subottimale inferiore a quello della cooperazione.  Chi ha progettato la moneta unica ci ha posti in mezzo al guado tagliandoci le vie di ritirata (il ritorno alle monete nazionali) pensando che questo ci avrebbe automaticamente spinto ad andare verso la sponda dell’unione politica con aggiustamenti simmetrici (di surplus e deficit) e trasferimenti fiscali tra gli Stati. Così non è stato e siamo rimasti pericolosamente a metà strada salvati per ora dal deus ex machina della Banca centrale europea nel mezzo di una crisi che alimenta sempre più nazionalismi ed egoismi. Se la Scozia e la Catalogna reclamano l’indipendenza perché mai Nord e Sud d’Italia dovrebbero stare insieme? E per quale motivo dovremmo condividere la moneta con le città vicine? Macroeconomia civile, oggi, significa superare queste spirali e costruire politiche monetarie e fiscali cooperative tra Stati, evitando la dissipazione di guerre commerciali o fondate su svalutazioni competitive. Vuol dire creare regole e contrappesi simmetrici che evitino gli squilibri dei saldi esteri. Un capitolo a parte lo meritano, poi, le questioni del debito pubblico e dell’operato delle banche centrali. Se è vero che la disciplina fiscale è importante per l’equità tra le generazioni, è anche vero che la controparte debole è quasi sempre quella dei debitori.Già la tradizione biblica sembra ricordarlo a partire dall’anno giubilare veterotestamentario sino al «rimetti a noi i nostri debiti» evangelico. La soluzione delle crisi del debito dovrebbe sempre tenerne conto, ma così non pare se guardiamo alle 'soluzioni' inefficienti e dannose persino per i creditori delle crisi greca e argentina.  Le regole sull’operato della Banca centrale devono diventare un capitolo fondamentale dell’economia civile. Solidarietà, sussidiarietà, opzione preferenziale per gli ultimi chiedono oggi a quest’attore uno scatto in avanti nella soluzione della crisi che stiamo vivendo. Le Banche centrali possono creare moneta dal nulla per dare respiro alle economie in difficoltà e hanno come unico vulnus il rischio di inflazione. Poiché nella globalizzazione viviamo piuttosto il pericolo opposto del calo dei prezzi (deflazione), per via dell’aumentata concorrenza, le banche centrali hanno il dovere di sfruttare il 'dividendo monetario' che hanno a disposizione 'gettando moneta dagli elicotteri' per combattere la grave malattia della disoccupazione. Così è stato prontamente negli Stati Uniti , nel Regno Unito e in Giappone ma non purtroppo nella Ue. I vantaggi di queste strategie più aggressive vanno ovviamente bilanciati con i rischi di creare bolle speculative e debiti insostenibili. Anche se, fino a oggi, il rigore non pare aver affatto prodotto risultati migliori.  Un ultimo capitolo fondamentale è quello della giustizia fiscale. Il contrasto ai paradisi fiscali e all’elusione appare oggi fondamentale per correggere diseguaglianze abnormi (gli 85 più ricchi del mondo con un patrimonio uguale a quello dei 3 miliardi più poveri) ed evitare il paradosso di una ricchezza (di pochi) senza nazioni e di nazioni senza ricchezza, private delle risorse essenziali per assicurare beni e servizi pubblici fondamentali alla grande maggioranza dei cittadini. l problema è globale si pone per l’Africa depredata dei proventi fiscali derivanti dall’estrazione delle sue risorse minerarie così come per l’Italia, vittima di pratiche elusive di grandi imprese che sfruttano paradisi fiscali interni all’Unione stessa. Il contrasto all’elusione (uno degli obiettivi cruciali dell’azione odierna dell’Ocse) deve accompagnarsi a una riforma delle regole della finanza per evitare in futuro sconvolgimenti come quelli del 2007 e per indirizzare energie e potenzialità dei mercati finanziari verso il bene comune. Tutto questo può avvenire attraverso due passaggi fondamentali che sono la modifica del sistema perverso di incentivi di manager e trader (che spingono verso prese di rischio eccessive) e una tassa sulle transazioni che modifichi il costo relativo tra attività meramente speculative e la fatica di seminare e investire nell’economia reale (oggi eccessivamente squilibrato a favore della prima attività). Non a caso viviamo una grave crisi di domanda di investimenti e di vincoli del credito. Se vogliamo incidere sugli attuali grandi problemi, non possiamo solo fare filosofia o occuparci dei grandi temi dell’uomo, dell’impresa e del valore.  Dobbiamo sporcarci sempre di più le mani (anche correndo il rischio di sbagliare e di dover rettificare) con la macroeconomia civile e con le grandi questioni di valore implicate nelle politiche fiscali e monetarie, nel funzionamento delle Banche centrali, nella gestione dei debiti pubblici e nella giustizia fiscale globale. Ricordando, come già fatto, nel caso della microeconomia civile che non esistono soluzioni tecniche ottimali ma solo scelte migliori o peggiori in base a scale di valori ben definite. E avendo ben chiara la scala di valori dalla quale vogliamo partire.

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