sabato 10 ottobre 2015
I delegati dei Parlamenti «rivali» firmano l'intesa raggiunta con l'Onu. Ora però la fragile proposta dovrà passare al vaglio di Tripoli e Tobruk.
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Sulla carta il governo c’è. Compilato con una specie di Manuale Cencelli libico delle milizie, delle fazioni, delle tribù e dei clan. A Skhirat, in Marocco, dov’erano riunite, le delegazioni dei due Parlamenti rivali (quello internazionalmente riconosciuto di Tobruk, quello islamista di Tripoli) hanno firmato un’intesa sull’esecutivo di un’unità nazionale poco dopo la mezzanotte di giovedì. Neanche cinque ore dopo i primi mugugni hanno cominciato ad attraversare la Libia da Est a Ovest, replicando rivalità e tensioni che nell’ultimo anno hanno bloccato ogni via di uscita dalla crisi. Ma il Paese ha, finalmente, un’opportunità.  Questo è, per ora, l’accordo raggiunto in Marocco: una possibilità. Ci sono le firme dei delegati in calce a un documento che parla di un esecutivo condiviso, con un premier, Faiz al-Siraj, che, almeno sulla carta, dovrebbe accontentare le parti (è originario di Tripoli e membro del Parlamento di Tobruk, anche se non nella lista dei designati da Tobruk), tre vicepremier nominati concordemente (Fathi al-Magbiri, Musa al-Kunni, Ahmed Maiteeq) e una lista di ministri scelti con il più grande equilibrio possibile. Ci sono anche due donne: Amal Hajj, attivista per i diritti civili, e la giurista Iman Ben Yunis. «Se questo esecutivo avrà il sostegno di tutti i libici, alla fine sarà il governo migliore del mondo», ha detto l’altra notte, con molta emozione, il mediatore dell’Onu per la Libia Bernardino Leon. Il problema sta tutto in quel «se». Perché l’intesa raggiunta dalle delegazioni dovrà essere valutata dai due Parlamenti rivali entro il 20 ottobre. E l’aria che tira non è delle migliori. Soprattutto dalle parti di Tripoli, che non ha visto soddisfatte le sue aspettative. Le prime prese di distanza sono arrivate già all’alba di ieri. «Non siamo parte del governo che è stato proposto», ha detto un rappresentante del Parlamento islamista, Abdulsalam Bilashair. Non una voce isolata: in giornata il dissenso si è consolidato in una grande manifestazione in città, nella Piazza dei Martiri («il nuovo governo qui non entrerà», è stato lo slogan); infine, una cinquantina di rappresentanti dell’esecutivo hanno annunciato senza troppi imbarazzi di essere già pronti a formare un «controgoverno».  In tutto questo non sono state sicuramente di aiuto le parole del comandante in capo delle Forze armate libiche, l’anziano e potente generale Khalifa Haftar, che da mesi si è fatto paladino della lotta contro i «gruppi terroristi» libici, proponendosi come “terza parte” tra Tripoli e Tobruk. «Libereremo Bengasi in tre settimane », ha annunciato dal suo quartier generale a El-Marg. Haftar dovrebbe trovare la saggezza di evitare toni bellicosi, mettendo da parte ambizioni personali che lo hanno spinto a proporsi come un al-Sisi libico. La nomina (molto discussa) di Fathi Bashagha come responsabile per la Sicurezza nazionali potrebbe suggerirgli un passo indietro. Ma è tutto da vedere. Di certo, il Paese merita una chance politica. Leon, in questi lunghi mesi (è stato incaricato Rappresentante speciale dell’Onu per la Libia nel settembre del 2104) ha fatto un lavoro di ricucitura delicatissimo e paziente. A fine mese scade il suo mandato, e oggi consegna alla Comunità internazionale un successo che va protetto da mille insidie.  L’Italia è stata tra i più forti sponsor di questo impegno diplomatico. Così pure l’Unione Europea che ieri – ha annunciato il capo della diplomazia Ue, Federica Mogherini – ha offerto un «immediato e concreto sostegno politico e finanziario, pari a 100 milioni di euro, al nuovo governo». La partita è fondamentale: avere un (unico) interlocutore libico accreditato è il primo fondamentale passo per risolvere la crisi interna – quella lacerazione che apre sempre più spazio ai jihadisti dell’Is (già solidamente installati a Derna e pronti ad espandersi nelle sabbie mobili dell’instabilità) – e per affrontare il problema dei profughi. Quello che serve è un atto di coraggio e di maturità da parte di un Paese che quattro anni fa si è emancipato dalla dittatura e si trova ora di fronte a un bivio. La “Primavera libica” inizia qui.
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