venerdì 4 dicembre 2015
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​Caro direttore,inizio da una considerazione: è urgente realizzare una legge sulle unioni civili. Hanno richiamato questa esigenza Corte Costituzionale, Corte di Cassazione, Corte europea dei diritti umani. A mio parere fu un errore non aver approvato otto anni fa una legge equilibrata come i Dico, elaborata, durante il Governo Prodi, da Rosy Bindi e Barbara Pollastrini. Ormai il tempo è diverso e dobbiamo prenderne atto. Lo è anche per la Chiesa di papa Francesco. Già molti anni fa, di fronte al divorzio, Aldo Moro aveva intuito che era venuto un tempo che chiedeva, ai cristiani e alla Chiesa, di dare priorità alla formazione nella società di comportamenti coerenti con i propri valori, piuttosto che affidarsi agli Stati, tenuti a garantire il pluralismo di fedi e culture. Lo è per le forze politiche, che devono evitare pregiudiziali che non consentono di ascoltarsi, ostruzionismi incapaci di proposte, strappi velleitari. Non servono toni assoluti, se si vogliono trovare soluzioni giuste.Le unioni civili non rientrano in accordi di governo: ciò non può attenuare lo sforzo per soluzioni condivise nella maggioranza. Ampliare le convergenze è utile: giocare con le sostituzioni sarebbe leggerezza. Ci sono aspetti della legge che uniscono un vasto arco di forze: penso che sia giusto garantire i diritti delle coppie di fatto, sia eterosessuali che omosessuali; le norme giuridiche per assicurare il rispetto di quei diritti devono essere diverse dal matrimonio, così come previsto nell’articolo 29 della Costituzione. La Costituzione non può essere chiamata in causa a seconda che piaccia o meno. Considerare l’insieme delle famiglie, come oggi sono presenti nella società, non significa non sottolineare l’importanza primaria del nucleo familiare tradizionale, in cui vive la maggior parte dei cittadini e non dotarlo dei sostegni indispensabili.Il tema più difficile riguarda l’adozione del figlio, già esistente, di un convivente delle coppie gay. Qui si scontrano tradizioni e sentimenti, aspirazioni e preoccupazioni di abusi, assicurati magari da disponibilità di denaro. Occorre riconoscere che non sono state ancora individuate norme che mettano un desiderio al riparo da questo rischio.Sarebbe stato meglio, come in Germania nel 2001, approvare prima una legge sulle unioni civili e successivamente, dopo una fase di confronto nella società, valutare come affrontare la questione dell’adozione dei figli. Oppure inserire questa problematica nella revisione complessiva delle adozioni, all’attenzione anch’essa del Parlamento. Temo sia tardi per scelte più sagge ma ormai travolte dal corso della politica. Di fronte a noi, stanno realisticamente due vie: trovare una convergenza, a partire dalla maggioranza di governo, sullo strumento giuridico dell’affido – come in Germania – rendendolo continuativo e prevedendo, a 18 anni, il diritto del ragazzo o della ragazza a decidere per l’adozione. In caso contrario, se prevarrà la scelta dello scontro ideologico, la strada sarà quella dei voti segreti e della libertà di coscienza. Preferirei un confronto trasparente e chiare assunzioni di responsabilità. Per riuscirci bisogna ampliare la prospettiva dei nostri punti di vista: non mettere in contrapposizione adulti che compongono una coppia di fatto e bambini, ma riuscire a farsi carico dei bisogni, diritti, doveri e aspirazioni, degli uni e degli altri, dando priorità ai più deboli. Non limitarci a tenere presente il solo Parlamento, le tattiche e i numeri per varare una legge. Quella sulle unioni civili sarà quasi certamente sottoposta a referendum: è legittimo, anche se in questo caso si rivela l’importanza che avrebbe disporre non solo di quello abrogativo, ma di quello di indirizzo.La politica tuttavia dovrebbe operare perché la consultazione dei cittadini si fondi su un confronto di merito, capace di far crescere l’intera società, non su scontri laceranti che lasciano dietro di sé divisioni e spesso macerie.Vannino Chiti, Presidente della Commissione Politiche dell’Unione Europea del SenatoIl presidente Chiti sa che apprezzo la schiettezza e la ragionevolezza con cui si misura con le questioni aperte e con cui sempre interpreta l’arte del dialogo che entrambi abbiamo cara, pur a volte nella legittima diversità di giudizio su singole situazioni e soluzioni e su passaggi storici. Dal disteso ragionamento che sviluppa sul nodo (che altri continuano ad aggrovigliare con fraintendimenti e più di una malizia) delle unioni gay ho nuova conferma di questa sua attitudine e di questa sua preoccupazione. E dico subito che, sul laico piano del metodo democratico, penso anch’io che possa essere utile oltre che opportuno realizzare una legge di larga convergenza che regoli chiaramente le unioni tra persone dello stesso sesso come realtà di carattere solidale, ma non matrimoniale. C’è, infatti, ormai bisogno di una normativa che, prima di tutto per la saggezza e la saldezza delle soluzioni trovate, abbia un volto umano e non ideologico e sia perciò in grado di “reggere” tanto alla futura (e più che probabile) prova referendaria evocata da Chiti, quanto a scontati tentativi di “spanciamento” (o addirittura di rivolgimento) per via giudiziaria. Proprio per questo è importante, secondo l’impostazione della sentenza 138/2010 della Corte Costituzionale, un limpido “aggancio” di tali unioni all’art. 2 della Costituzione – che richiama le «formazioni sociali» nelle quali «si svolge» la «personalità» dell’uomo – e nessuna confusione con il matrimonio secondo l’art. 29. Purtroppo però, da questo punto di vista, il testo attuale annuncia seri e gravi pasticci, che giuristi delle più diverse scuole ma della stessa consapevolezza già cominciano a mettere con stupore e allarme sotto la lente (Luciano Moia ne dà conto, proprio oggi). Un discorso speciale riguarda la scelta della via da imboccare riguardo ai figli. Che non sono e non devono essere ridotti – anche se la spinta è forte, anzi proprio per questo – a oggetto di “diritto” altrui (o a bandierina da conquistare in “battaglie” politiche e/o esistenziali), perché essi stessi sono sempre soggetti titolari, come ogni altro essere umano, di diritti propri e inviolabili. Lo dico da tempo e lo ripeto con tutta la forza e la convinzione possibili: i figli, assieme alle donne madri, non possono essere precipitati nell’abisso disumano e mercantile scavato dalla pratica dell’«utero in affitto» (e in misura meno lancinante, ma civilmente non meno grave, del commercio del seme maschile). Abisso che il senatore Chiti non nomina, ma fa balenare quando parla di possibili «abusi, assicurati magari da disponibilità di denaro» in riferimento all’adozione all’interno di coppie omosessuali (e non solo) del figlio del partner, la cosiddetta stepchild adoption. E c’è dell’altro. Ancora troppo pochi legislatori, infatti, si rendono conto quanto grave sia la minaccia di realizzare attraverso questa forma di adozione un sistema conflittuale e disorientante nel quale attorno al figlio possono affollarsi sino a tre o quattro genitori o al contrario la madre o il padre biologici (o anche entrambi) possono essere programmaticamente rimossi. Il realismo spinge a considerare il bivio secco «o adozione del figlio del partner o affido», dice tuttavia Chiti. Io so che non parla a vanvera, e però continuo a sperare in un sussulto di buon senso che spinga a valutare bene tale passaggio. E non ora, nella legge sulle cosiddette unioni civili, bensì in sede propria (cioè la riforma dell’adozione), calcolando a fondo tutte le conseguenze dei “processi relazionali” che possono venire innescati. Ma, più di tutto, almeno una cosa vorrei che fosse finalmente decisa e garantita: il ferreo divieto di ricorso all’«utero in affitto» e a ogni altro commercio d’umanità nella generazione dei figli. Ma un divieto ferreo davvero, insuperabile. Chi acquista il corpo di una donna per “farsi fare” un figlio non deve poter “avere” quel figlio, e tanto meno condividere anche solo un pezzo di genitorialità attraverso adozione o affido. Altri Paesi lo consentono? Giudici italiani lo stanno permettendo? Lo so. E proprio per questo come tante e tanti, semplicemente per umanità e per rispetto vero di ogni persona, vorrei che il mio Paese fosse il primo a rispondere, decidendo che una tale vergogna schiavista non può e non deve essere accettata. Qualcuno deve pur cominciare a resistere, a ribadire uno dei fondamentali cardini dell’umana civiltà. Spero davvero che sia l’Italia, che il nostro Parlamento si scuota, veda e provveda in dialogo vero. Ma con tutti.Marco Tarquinio
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