sabato 18 gennaio 2014
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Caro direttore,
mi impressiona – non so come fate – come riuscite a fare un giornale con tanti argomenti, tante pagine colme di chiarezza e profondità, non gridando, non alterando la realtà. Siete davvero bravi. Io avrei tante cose da raccontarvi del carcere. Vedo sempre più "cammini belli", meraviglie di Dio, pur insieme a situazioni dolorose e rabbia e rancore. Tanti detenuti, soprattutto stranieri: ieri ho avuto 13 colloqui di cui 2 con italiani e 11 con stranieri. Bellissimo e profondo è il rapporto con loro. E con tutti gli agenti di ogni grado, così come con magistrati, procuratori e avvocati. Con persone significative come il procuratore Caselli, sindaci e presidenti. È lo stesso rapporto che vivo con bambini, anziani, malati. E anche con tanti sacerdoti e alcuni vescovi. In fondo è dono di Dio essere mamma, sorella, amica di tutti. È proprio vero quel che mi aveva detto un giovane sacerdote anni fa: «Non avere paura, nel cuore ci stanno tanti, ci stanno tutti, lo Spirito Santo ce lo dilata». Auguri, direttore, a tutti gli amici di "Avvenire": davvero vi sono vicina, vi stimo, vi voglio bene e prego per voi.
Suor Caterina Galfrè, Cuneo
Da tre giorni stiamo ascoltando e portando sulle nostre pagine le diverse voci del mondo della politica per capire quanto sappiano a loro volta ascoltare le "voci di dentro" del pianeta carcere. E quanto abbiano capito del solenne e accorato messaggio che il presidente Napolitano, dopo reiterati e inascoltati appelli, si è risolto a inviare al Parlamento per invitarlo a sanare l’inqualificabile vergogna di un sistema di detenzione che continua a scivolare nella disumanità, ormai sanzionata anche dalla Corte europea dei diritti umani. Quest’altra voce, la sua voce limpida e saggia di suor Caterina, ci aiuta – anche solo con pochi accenti – a mettere a fuoco meglio il problema che ci sta davanti quando diciamo "prigioni" e ragioniamo di "giustizia", anzi a ricordarci di chi ci sta davanti: la persona umana, uomini e donne in carne e ossa, e anima. La paura della gente per i malfattori non è una cosa astratta, ma neanche la "tortura" inflitta da una detenzione vissuta in condizioni penosamente incivili lo è, neanche l’impossibilità di vivere quei percorsi di recupero che possono restituire (e di fatto restituiscono con percentuali significative) un cittadino e un fratello alla comunità che il condannato aveva offeso e tradito. Grazie, cara suor Caterina, per questo «cuore dilatato» anche nelle strette carceri d’Italia.
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