lunedì 31 agosto 2015
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​Giotto è un personaggio chiave dell’arte italiana. Dante Alighieri, che era quasi suo coetaneo, lo ammirava. Senza Dante forse non avremmo oggi una lingua italiana, come noi italiani la intendiamo; l’Alighieri fu un creatore sommo e quasi solitario della nuova lingua. Giotto invece creò la pittura italiana non soltanto col suo genio, ma con tutta la sua azienda, forse una specie di impresa familiare. I suoi contemporanei scrissero che egli vinse in due mosse la sfida di cambiare l’arte del suo tempo: tradusse la pittura "dal greco in latino", cioè abbandonò lo stile bizantino ("greco") e guardò invece ai modelli dell’antichità classica e romana (cioè "latini"), che certo non erano stati dimenticati nel corso del Medioevo ma che egli reinterpretò in maniera assolutamente nuova. E poi si ispirò direttamente alla natura, osservando le immagini del suo tempo: uomini, donne, bambini, animali, città, campagne, vestiti, piante, arredi, attrezzi, insomma tutto ciò che era attuale, cioè "moderno", proprio come ogni persona poteva vedere intorno a sé.Come fece tutto questo ancora non lo sappiamo bene. Perché ci riuscì proprio lui e non un altro? È ormai chiaro, però, che accanto al genio artistico Giotto ebbe una straordinaria capacità organizzativa e di insegnamento: non fu un isolato, non lavorò sempre nel medesimo luogo. Come molti artisti del Medioevo, sicuramente aveva una bottega, forse anche un gruppo di collaboratori mobili, una "compagnia" (così allora si denominava un’azienda) composta da più giovani maestri dell’arte e da tecnici specializzati. Con una parte di loro - non necessariamente sempre gli stessi - si spostava in Italia da una città all’altra; ma probabilmente in ogni luogo dove lavorava si faceva affiancare anche da aiutanti presi tra pittori e garzoni locali.Quest’impresa ramificata e a compagine mutevole produsse nelle più importanti città italiane opere innovative e di alta qualità, sempre segnate dall’impronta molto personale di Giotto, che restava ben riconoscibile anche se con il tempo il suo modo di dipingere andava evolvendosi; dovunque otteneva il risultato di influenzare profondamente la cultura artistica dei luoghi, in un modo così profondo da non poter restare ignorato. Anzi, la sua maniera di dipingere divenne prestissimo l’unica "alla moda" e a essa bisognava uniformarsi.È grazie proprio alla organizzazione e alla qualità professionale della sua "compagnia-bottega" che Giotto poteva soddisfare committenze in diversi luoghi contemporaneamente. In alcune stagioni dell’anno era più facile lavorare sui muri di chiese e palazzi con la tecnica pittorica dell’affresco: allora, da lui diretti, decine di garzoni e pittori si affaccendavano su ponteggi alti anche dieci o quindici metri. In altre stagioni, specialmente d’inverno, quando i muri non si asciugavano facilmente, si lavorava meglio al chiuso, ad esempio per realizzare grandi pale d’altare oppure piccole opere per la preghiera personale o addirittura da potersi trasportare in viaggio. Opere che non sempre venivano dipinte nel luogo di destinazione, ma che venivano consegnate, dopo il compimento, anche in località piuttosto lontane.La difficoltà di mettere in ordinata cronologia la vita di Giotto artista non impedisce agli studi più recenti di cominciare a ipotizzare un’azienda di straordinario successo; un successo che travalicava i confini fiorentini. La sua cifra espressiva e la sua persona erano apprezzate e ricercate in molti territori e corti della penisola italiana e da diversi tipi di committenti: il Papa, i francescani, i domenicani, grandi mercanti, signori di ricche corti e banchieri.Egli è forse l’artista italiano che ha avuto più rapidamente di tutti il più alto numero di seguaci dal nord al sud della Penisola. Tutto questo grazie alla sua innovativa organizzazione, unita a cultura, sensibilità e abilità senza precedenti. Gli studi scientifici e le ricerche archivistiche compiuti in occasione di restauri di molte sue opere ci hanno chiarito che Giotto non fece grandi innovazioni nella scelta dei materiali, delle attrezzature, dei procedimenti tecnici, ma cambiò il modo di usarli: impadronitosi prestissimo delle tecniche tradizionali, fece le sue scelte preferenziali introducendo modifiche di progettazione, iconografiche e figurative idonee a raggiungere risultati espressivi del tutto nuovi, creando un nuovo modo di dipingere e insegnando ovunque ai suoi collaboratori e discepoli a fare come lui.In che cosa Giotto fu così innovatore? A prima vista un visitatore della mostra potrebbe non capirlo, non distinguere così nettamente la sua pittura da altre del suo secolo; e non si potrebbe rispondergli in due parole. Si può tuttavia invitarlo a cercare la risposta affondando lo sguardo nelle sue opere. Solo andando in profondità, con tutti i mezzi, nella pittura di Giotto - così continuamente in innovazione, da mettere in difficoltà gli storici dell’arte che vogliano tracciarne un profilo evolutivo con tappe certe - si può tentare di superare lo stereotipo di artista per eccellenza, che però si conosce poco, quasi fosse Apelle.Ecco perché si è voluta una mostra di poche opere, ma tutte "sue": per incontrarlo a tu per tu e riconoscerlo nei balzi del suo ingegno, colto e coraggioso.Le opere di Giotto, realizzate da lui personalmente e dai suoi "compagni" con il suo diretto progetto e controllo, furono certo moltissime, dal centro al sud al nord d’Italia; quelle a noi arrivate sono però relativamente poche; ancora meno sono quelle per le quali possiamo indicare con qualche attendibilità le date di esecuzione. È sorprendente constatare che delle opere dell’artista più importante per il formarsi della pittura italiana abbiamo così poche notizie certe. Non ci sono opinioni unanimi neppure su quella che si ritiene nel mondo la sua opera più famosa, gli affreschi nella Basilica superiore di San Francesco ad Assisi. Soltanto pochi studiosi, echeggiando vecchie opinioni del secolo scorso, pensano addirittura che Giotto non vi abbia proprio lavorato, ma assai più solido appare il giudizio che si tratti di una sua personale concezione, eseguita sia direttamente sia con il concorso di molti altri maestri
Non c’è dubbio, per chi di questa mostra ha la curatela, che proprio ad Assisi la straordinaria capacità innovativa di Giotto sia venuta pienamente alla luce, anzitutto nelle Storie di Isacco sulla parete destra nella Basilica superiore, parallele, per dir così, alla mirabile Croce di Santa Maria Novella a Firenze. C’è peraltro in mostra un dipinto su tavola davvero sorprendente, che forse più di ogni altra sua opera ci fa capire subito la libertà a pieno giro della mente di Giotto rispetto alla pittura del suo tempo. È una specie di finto affresco: la porta di chiusura di un vano sulla cima dell’arco trionfale della Cappella degli Scrovegni, che, vista dal basso, si inseriva perfettamente nel grande dipinto parietale con la rappresentazione di Dio Padre (questo è appunto il soggetto della tavola) che ordina a Gabriele di recarsi da Maria per l’annunzio dell’incarnazione in lei del Figlio. L’opera stupisce per la sapienza prospettica soprattutto delle mani, più ancora che del trono, e per l’espressività intensa del volto del Padre: ha le fattezze giovanili di quel Figlio che sta per incarnarsi, è un giovane re, forte e pieno di luce.
Il percorso costantemente innovativo della regia di Giotto nei suoi polittici, che questa mostra consente di seguire con inedita ampiezza nel numero e per la qualità delle opere esposte, approda alle mete più avanzate, oggi note, con il Polittico di Bologna e con quello della cappella Baroncelli in Santa Croce a Firenze. L’accostamento delle due opere, vicine per datazione, è arricchito dalla cuspide con il Padre Eterno e angeli, eccezionalmente prestata dal Museo di San Diego nonostante questo sia il suo anno giubilare, perché assolutamente eccezionale è l’occasione di vederla di nuovo accanto al Polittico Baroncelli, dal quale venne resecata allorché, nel tardo Quattrocento, il retablo fu aggiornato in senso anti-gotico e ridotto nell’attuale cornice rettangolare: una complessa vicenda di storia del gusto che esami diretti dell’Opificio delle Pietre Dure, condotti in occasione della mostra, consentiranno di meglio circostanziare.Giunti così alle soglie del soggiorno milanese di Giotto, carico di anni e di eredi nella pittura, non possiamo che rammaricarci della perdita di ogni traccia della Gloria mondana e della teoria di Uomini illustri che egli avrebbe dipinto nel palazzo milanese di Azzone Visconti. Ma, riflettendo sullo straordinario ritrovamento e connessa rilettura dei lacerti di fregio in affresco scoperti da Serena Romano nel palazzo arcivescovile, con la Leggenda delle origini di Roma, potremmo immaginare gli Uomini illustri come una sequenza di antichi personaggi, forse in sintonia con l’impostazione statuaria dei santi del Polittico di Bologna; dunque, ancora una volta, un forte messaggio di recupero di cultura classica. Purtroppo questo testamento pittorico di Giotto non ci è pervenuto e ogni ipotesi rischia di cadere nell’illazione. Certo è che mentre gli imitatori lo seguivano da decenni, anche in Lombardia, egli era già più avanti, nel rappresentare lo spazio - tutto lo spazio, nei vuoti come nei pieni - come nella resa delle emozioni attraverso sguardi e gesti. Proprio in questo, probabilmente, fu la sua essenza di grande imprenditore della comunicazione visiva nel suo tempo.
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