martedì 23 luglio 2013
Tetraplegica, ha 36 anni: «Ho donato agli altri il mio dolore perché Gesù aiutasse chi stava peggio di me. Vorrei tanto essere alla Gmg. Il mio sogno? Laurearmi».
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Laura Salafia, 36 anni, ti accoglie con un sorriso che le resta stampato sul volto anche quando i ricordi tristi tornano prepotentemente a quell’1 luglio del 2010. Quel giorno Laura, studentessa universitaria del Siracusano, appena uscita dalla facoltà di Lettere dell’Università di Catania, fu raggiunta casualmente da un proiettile vagante partito da un’arma usata da Andrea Rizzotto – che aveva premuto il grilletto, sembra, per una vendetta nei confronti di un uomo che lo avrebbe ingiuriato –. Il rumore della città è annullato dalle parole scandite e decise di questa donna che vive coraggiosamente la sua condizione di tetraplegica (la sua patologia le consente di muovere solo la testa). Dopo tre anni di ospedalizzazione e di paralisi, e dopo una lunga serie di interventi e di terapie tra l’Emilia e la Sicilia, è tornata in una vera casa, un "domicilio protetto", donatole dal Comune di Catania in comodato d’uso, adatto alle sue esigenze e pensata anche per i suoi genitori e la giovane badante, per la quale Laura «è ormai una sorella».Cosa vuol dire stare di nuovo in una casa con i suoi genitori?Per me è come se fosse un’esperienza nuova perché avevo perso il senso di stare in una casa. Non mi sono ancora abituata, mi sembra strano, ma forse è solo uno stato psicologico che mi dà un po’ di tensione in certi momenti, mentre in alcuni sto bene e dimentico pure la mia condizione. Sono contenta di stare assieme a loro, non vedevo l’ora di riprendere la mia vita. È normale che ci siano degli sforzi da fare perché ogni cambiamento, se da un lato è stimolante, dall’altro è difficoltoso, ma questo vale per tutti. Nel mio stato cerco di affrontare i problemi nel migliore dei modi.In questi anni di ospedalizzazione non c’è stata un’abitazione, ma attorno a lei si è creata una sorta di famiglia allargata: genitori, personale ospedaliero, amici.Sì, è un messaggio che dovrebbe arrivare a tutti: se si ha una famiglia accanto, le difficoltà si possono superare. I miei genitori ci sono stati sempre! Per me è stata una grande forza, anzi siamo stati tutti e tre una forza insieme. Ho fatto la mia parte anch’io: non pesare ulteriormente sulle loro fatiche, nei momenti in cui stavo molto male non fargli capire nulla, non lamentarmi. Fondamentale è stata la presenza di medici, infermieri ed altre persone con cui ho legato moltissimo.Dove ha trovato la forza per affrontare tali sofferenze?All’inizio di questa vicenda io mi sono rivolta a Gesù e gli ho detto che avrei donato agli altri tutta la mia sofferenza, perché Lui potesse aiutare chi stava peggio di me. Inoltre ho chiesto che ciò che era successo, potesse scuotere le coscienze delle persone intorpidite come da un sonno che non fa capire ciò che ci circonda. Non ci si rende conto che chi ti sta accanto può avere problemi. Siamo indifferenti, non ci poniamo domande, né diamo delle risposte nel quotidiano se vediamo che qualcosa non va. Dentro di me sento grande sofferenza e credo che donarla agli altri sia il modo migliore per sentirne meno, cercando di stringere i denti e andare avanti come Gesù ha fatto per noi. Per me è un maestro nella sofferenza.Come si fa a mantenere la fede quando accadono eventi così gravi?La fede è un mistero: o la si accetta in qualunque situazione o non la si accetta affatto. Ti puoi fare domande ma spesso non avrai risposta anche quando stai bene. Dunque devi credere come atto di abbandono in Dio. Questo l’ho imparato dalla mia famiglia, l’ho rafforzato in questi anni grazie alla vicinanza di tanti amici. Tra questi ultimi è particolare lo scambio epistolare con un detenuto che mi scrive tramite una suora benedettina. Sono lettere di chi ha compreso gli errori commessi, piene della coscienza dell’errore e di richiesta di perdono. Perdonare non è facile, sulla terra ci sono i tribunali ma in cielo c’è Dio a cui affido il perdono anche di colui che mi ha sparato.Quando pensa alla vita prima di quello che chiama «il suo incidente», come fa ad andare avanti?Prendo di positivo quanto c’è in questa vita! Ogni vita infatti vale la pena di essere vissuta, poiché è un dono. Le difficoltà non mancano a nessuno: c’è chi si fa problemi per nulla e vive male, non rendendosi conto che l’esistenza è unica e non va sprecata. Nella mia condizione cerco di testimoniare il valore di ogni attimo!Oltre le lettere ha incontrato i giovani nelle scuole: come ha vissuto questi incontri?Mi hanno chiesto il segreto per andare avanti. Ho risposto cercando di trasmettere la voglia di vivere! Stimolandoli a non fermarsi all’esteriorità, all’omologazione. Pensare singolarmente cambia la vita, forse isola un po’, ma è meglio che non pensare o farlo con la testa di altri. Sono contenta che Papa Francesco, un uomo semplice che riesce ad entrare nel cuore di tutti, incontri in questi giorni milioni di giovani. Ci deve essere qualcuno che possa "perforare" il cuore dei giovani, scuoterli, fargli capire ciò che conta, con poche parole, uno sguardo, un sorriso! Vorrei tanto essere anch’io con loro a Rio, ma pure da qui seguirò la Gmg con gioia.Ha un sogno?Ho tanti sogni e crescono ogni giorno. La vita stessa lo è! Se non ci fossero, non si potrebbe vivere bene. Bisogna coltivarli perché rendono la vita più dolce, aiutano a crescere. Anche quando nella realtà non c’è un riscontro, non si deve mollare, bensì impegnarsi perché si trasformino in realtà. Il mio sogno più grande è quello di laurearmi in Lettere moderne e non smetto di fare dei passi per riuscirci.
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