martedì 26 novembre 2013
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Alcuni analisti americani indicano nella pesca illegale una delle principali cause dell’esplosione della pirateria marittima in Somalia. Fino al 1991 l’accesso alle acque territoriali da parte dei grandi pescherecci stranieri era disciplinato e contingentato, ma dopo il collasso dell’autorità centrale ogni tipo di controllo è saltato. Tra il 1991 e il 1999 nelle acque somale si sono contati in media 200 pescherecci a stagione: tutti hanno utilizzato sistemi proibiti, che hanno distrutto non solo le riserve di pesce ma anche la barriera corallina dove prosperavano aragoste e altre specie marine. In dieci anni i pescatori locali, abituati a utilizzare tecniche artigianali e a basso impatto ambientale, hanno visto diminuire del 20 per cento la loro raccolta. Si è calcolato che ogni anno almeno 90mila tonnellate di pesce somalo sono state prelevate illegalmente. Una vera e propria invasione, contro cui i pescatori della costa, con le loro rudimentali canoe, hanno potuto fare ben poco. Nel 2004 un loro rappresentante sintetizzò così la situazione: «Queste grandi navi hanno cacciato ogni cosa. E ora non c’è più niente per noi africani». Con il collasso del governo, i pescherecci si sono avvicinati alle coste per prelevare le specie più pregiate, in diretta concorrenza con i pescatori somali, che hanno reagito attaccando le imbarcazioni intruse per chiedere compensazioni in denaro. Già nel 1993, le compagnie occidentali dislocarono scorte armate a bordo per respingere questi assalti. Ma per operare in sicurezza, iniziarono a stringere accordi con i vari signori della guerra, abilissimi nel fiutare il business. I "warlords" iniziarono a concedere "licenze" di pesca sostituendosi allo Stato dissolto. Non solo, si misero a fornire sorveglianza armata, utilizzando poi il ricavato per acquistare armi. Permessi e protezione si rivelarono però insufficienti di fronte alla crescente organizzazione di gruppi di ex pescatori come i sedicenti "Somali Marines", che iniziarono a sequestrare gli equipaggi e a chiedere riscatti, fino all’escalation della metà degli anni Duemila. Le compagnie straniere smisero di acquistare le inutili licenze dai warlords, che a loro volta si buttarono nella pirateria, "assumendo" come manodopera proprio gli ex pescatori. Si completò così la degenerazione di un movimento spontaneo - nato per difendere e tutelare i fondali - in crimine organizzato. Lo tsunami del 2004 fece il resto. Il cataclisma non solo spazzò via quel che restava della già fragile industria della pesca locale, ma portò a riva contenitori con rifiuti tossici scaricati al largo delle coste, fornendo un nuovo pretesto a quelli che una volta erano pacifici pescatori.
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