giovedì 31 gennaio 2013
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​Più controverso di Montedison e più inafferrabile di Parmalat: dinnanzi al buco della sanità laziale anche Enrico Bondi ha gettato la spugna. Il grande risanatore se ne va lasciandosi alle spalle seimila stipendi da pagare nella sanità privata e un debito che cresce giorno per giorno. «Liquideremo tutto quello che si può liquidare» si è affrettato a dichiarare il suo successore, Filippo Palumbo, che sta cercando di tamponare la crisi dell’Idi e del San Raffaele e ha preso in consegna un deficit di 740 milioni e una fila sterminata di creditori. Oggi, nel Lazio, un’azienda che vende cateteri o ferri chirurgici deve attendere fino a 352 giorni per essere pagata. Per legge, dovrebbero passare al massimo due mesi, ma prima di andarsene Bondi ha firmato un decreto che accorda ad Asl e ospedali una proroga fino a 120 giorni, naturalmente senza interessi; immaginatevi lo stato d’animo dei fornitori, dopo i tagli di Tremonti, la spending review, la legge di stabilità. Senza contare che nelle regioni sotto piano di rientro non si può pignorare. Tra i creditori del Servizio Sanitario regionale ci sono le strutture convenzionate, che da anni vedono solo acconti, calcolati su tariffe che risalgono al ’97. Il contenzioso con il gruppo San Raffaele è arrivato ormai a 250 milioni. Il Fatebenefratelli non se la passa meglio: sull’Isola Tiberina, quanto meno, gli stipendi vengono pagati ma i salari sono bloccati da anni e gli investimenti vanno avanti col contagocce. Del resto, su un bilancio di 130 milioni di euro, 95 derivano da prestazioni erogate in convenzione con il servizio sanitario nazionale: «Siamo e resteremo un ospedale per tutti - ci spiega il direttore generale Carlo Maria Cellucci - e, seguendo l’insegnamento di San Giovanni di Dio, continueremo certamente a privilegiare il servizio pubblico, ma la situazione è oramai insostenibile. L’introduzione dei drg nel ’95 ha comportato un sacrificio del 30%; con i tagli lineari e i provvedimenti di Monti la riduzione è dell’8%». Il nodo scorsoio che sta strangolando la sanità convenzionata è rappresentato però dal grave ritardo con cui la Regione Lazio rimborsa le prestazioni (mai interrotte): supererebbe i cento milioni il credito dell’ospedale dell’Isola Tiberina (intitolato a San Giovanni Calibita) che con i suoi 330 posti letto (oltre a 50 in day hospital) e 940 dipendenti è considerato la culla di Roma per via della sua gettonatissima ostetricia.Gli ospedali classificati solo a Roma sono otto e mentre queste strutture per continuare a erogare prestazioni gratuite o coperte dal solo ticket devono stressare i loro bilanci - il piano Bondi prevede un taglio retroattivo del 7% (97 milioni) alle 46 tra strutture private e religiose attive in Regione - e convincere le banche a rinnovare le linee di credito (tre anni fa, quando abbiamo realizzato un’analoga inchiesta, gli oneri finanziari nel 2007 erano 3.9 milioni e saranno 4,5 nel 2013) gli ospedali pubblici per quelle stesse prestazioni (e costi in media superiori del 30-35%) possono sforare allegramente. Dal 2000 al 2009, mentre alla sanità privata e religiosa si chiedeva di rinunciare al 35% dei rimborsi (salvo versare, in assenza di accordi tra le parti che si sono interrotti nel 2005, solo il 70% del totale) la Regione ha autorizzato un deficit delle aziende sanitarie pubbliche di oltre 16 miliardi e la perdita approvata per il 2012 sfiora il miliardo; sono proprio i grandi nosocomi che contestano il piano Bondi di riduzione dei posti letto e gli ultimi tagli della gestione Polverini (una circolare impone una ulteriore dieta del 15%) a far registrare sforamenti nell’ordine del 50%. La situazione è talmente aggrovigliata che i candidati alla Regione lanciano proclami ma si guardano bene dall’entrare nel merito. Amano accapigliarsi, questo sì, sulle responsabilità storiche del défault, che sono sostanzialmente bipartisan e che non possono neppure essere circoscritte al dato finanziario, se si considera che parliamo di una sanità regionale che, a fronte del "buco" che conosciamo e una media di 11,3 medici per 10 posti letto (per capirci, sono 6 in Friuli e 12 in Sicilia) risulta terza per vittime da malasanità ed è nota alle cronache più per lo scandalo del 118 che per le sue eccellenze. Quel che la politica non osa dire è che l’alternativa ai tagli sono le tasche dei laziali, tant’è vero che solo i tributi locali e l’addizionale Irpef hanno consentito di trovare i 792 milioni che mancavano all’appello per chiudere il 2011. A non sapere che pesci pigliare non sono solo i politici. Il sindacato, ad esempio, da un lato esorta ad «uscire dalle logiche punitive e ragionieristiche dei piani di rientro» e dall’altro denuncia l’escalation dell’addizionale Irpef, passata a Roma dall’1,4 del 2010 all’1,73 del 2012, e dell’Irap, che costringe le imprese laziali a pagare in media 500 euro più di quelle emiliane. Servirebbe innanzi tutto un’iniezione di realismo, come spiega Cellucci: «Occorre un nuovo piano di rientro ma sostenibile, mentre finora sono stati fatti piani incredibili e nei quali - ci dice - nessuno ha creduto. Va superato il metodo dei tagli lineari, iniquo e inefficace, e bisogna riorganizzare la rete analizzando seriamente le esigenze dei territori».
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