lunedì 21 ottobre 2013
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Quelle lunghe file di bare allineate sul molo di Lampedusa non gli hanno provocato soltanto «un grande dolore», ma anche una «profonda rabbia». Nell’immane tragedia dei migranti eritrei affogati nel Canale di Sicilia, rivede il «dramma di un popolo disperato in cerca di un futuro per i propri figli». Scorrendo le immagini delle più di trecento vittime mostrate in tivù e sui giornali, cerca i volti conosciuti dei “suoi” studenti della scuola italiana dell’Asmara, dove ha insegnato per sette anni, fino al 2009. Chiede notizie su Facebook e, direttamente dall’Eritrea, trova conferma che, sì, tra i cinquecento disperati del barcone inghiottito dal mare ci sono anche alcuni ragazzi che frequentavano il circolo della scuola. E il dolore, già «immenso», diventa, se possibile, ancora più lacerante.Il professor Emilio Di Biase, 58 anni, oggi è dirigente dell’Istituto “Cobianchi” di Verbania, ma per diciassette anni, dal 1992 al 2009, ha insegnato in Africa, prima ad Addis Abeba, in Etiopia e poi, appunto, all’Asmara. Nativo di Eboli (Salerno) e laureato in Ingegneria a Napoli, con un master in Ingegneria sanitaria ambientale, ha insegnato costruzioni e topografia per una decina d’anni all’istituto per geometri di Battipaglia, ma il suo sogno era di «lavorare nei Paesi in via di sviluppo». Partecipa così a un concorso per insegnanti del ministero degli Esteri e finisce nel Corno D’Africa.«All’inizio – spiega – queste scuole erano state pensate per gli italiani, per i figli dei funzionari, ma oggi sono frequentate, per il 90%, da studenti del posto».Per il giovane insegnante, il periodo più duro è quello a cavallo del secolo, quando, nel 1998, scoppia la guerra tra Etiopia ed Eritrea per questioni di confine, ad oggi non ancora risolte. Di Biase si trova in mezzo alla battaglia e decide di trasferirsi in Eritrea. «Questa guerra è all’origine del disastro di oggi – spiega – e noi italiani abbiamo una responsabilità storica che non possiamo e non dobbiamo dimenticare. Il nostro Paese ha davvero una responsabilità in più verso questo popolo, che fugge da uno stato caserma e da un regime dittatoriale».L’Eritrea, prosegue Di Biase, è un Paese militarizzato, dove, per gli uomini tra i 15 e i 50 anni l’unica prospettiva possibile è il servizio militare obbligatorio. Sempre su Facebook un altro dei suoi studenti, che non ha ottenuto il permesso di lasciare il Paese, gli chiede di aiutarlo a iscriversi a un corso universitario a distanza. Ordinaria amministrazione per chi è costretto a vivere sotto il pugno di ferro del regime.«Il problema più grave non è la fame o la povertà – insiste il preside –. Il vero dramma è la miseria, che è la povertà senza speranza. Anche attirati dalle sirene dell’Occidente, questi ragazzi scappano da una morte miserevole, graduale ma ineludibile, in cerca di una speranza di futuro per i propri figli. Una missionaria con cui sono rimasto in contatto, mi ha scritto di donne che si danno fuoco con la benzina perché non vedono una qualsiasi prospettiva di vita per i loro piccoli. Altre fuggono con i neonati in braccio o partoriscono sul barcone, pur di andarsene da lì. L’Eritrea è una gigantesca prigione dove è stata uccisa persino la speranza».Proprio perché conosce le storie di questi disperati, proprio perché ha provato la stessa fame («Siamo arrivati a cuocere il pane in casa con la poca farina rimasta, perché i forni erano stati tutti chiusi»), il professor Di Biase si arrabbia quando li sente chiamare “clandestini” o quando il nostro Parlamento «approva leggi che prevedono i respingimenti e il reato di immigrazione clandestina». Il suo non è buonismo a buon mercato, ma la forte protesta di chi ha assistito alla «decadenza senza fine» di un’intera nazione e oggi è spettatore impotente della tragedia dei suoi figli. «È vero, come sento dire da più parti, che non li possiamo ospitare tutti in Italia – conclude –. Ma che cosa facciamo per aiutarli laggiù? Purtroppo il nostro è un Paese senza memoria. Per qualche giorno ancora le storie di questi disperati saranno sui giornali. Poi torneranno nel dimenticatoio da dove sono venute, almeno fino alla prossima strage. Spero, invece, che questa tragedia ci apra finalmente gli occhi su una realtà che non possiamo più ignorare».
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