martedì 17 aprile 2012
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I dati più recenti sono quelli presentati lo scorso agosto in Parlamento e relativi al biennio 2009-2010. Ma medici e associazioni sono convinti siano già ampiamente superati: nel senso che la situazione, da allora, non può essere che pesantemente peggiorata. Stiamo parlando delle donne straniere e dell’aborto, un binomio che nel nostro Paese assomiglia sempre più a una emergenza sociale. I numeri parlano chiaro: sul totale delle interruzioni di gravidanza praticate nel nostro Paese, oltre il 33% dei casi riguarda immigrate (nel 1998 erano appena il 10%). Una cifra in progressivo, esponenziale aumento, a fronte della graduale diminuzione delle interruzione di gravidanza tra le italiane. E si tratta solo dei dati ufficiali, al netto cioè degli aborti clandestini, sempre più diffusi grazie al fiorire del mercato illegale di farmaci abortivi e alla mancanza di informazioni da parte delle immigrate. Che, in un caso su tre secondo la Società italiana di ostetricia e ginecologia, considerano l’interruzione di gravidanza alla stregua di un contraccettivo. Alle origini dell’emergenza, il dramma della prostituzione e soprattutto le condizioni di vita e di lavoro non facili: situazioni che rendono difficile portare avanti una maternità. Non è un caso se la percentuale di aborti tra adolescenti (proprio come tra le donne italiane), è molto bassa: quasi la metà delle immigrate che vi ricorrono, anzi, sono coniugate e nel 43,8% dei casi con occupazione lavorativa, per lo più precaria, preoccupate che la gravidanza possa compromettere il loro status, e quello della loro famiglia, già di per sé incerto. Il resto lo fa la scarsa conoscenza della lingua e delle leggi italiane, che rende loro difficile anche il rapporto con il personale sanitario e con le istituzioni. Situazioni con cui ogni giorno si scontrano le centinaia di Centri di aiuto alla vita sparsi sul territorio nazionale, dove l’80% e più delle donne che si presentano chiedendo aiuto sono proprio straniere. Qui i volti cambiano, ma le storie si ripetono: le immigrate, soprattutto di origine sudamericana (anche se secondo la Relazione presentata in Parlamento a ricorrere all’Ivg sono soprattutto le donne dell’Est Europa) arrivano spaesate, spezzate dall’idea di dover rifiutare la vita che portano in grembo e tuttavia certe che gli ostacoli economici siano insormontabili. Sono arrivate alla gravidanza quasi inconsapevolmente: conoscevano i metodi contraccettivi, ma non pensavano potesse succedere a loro. Un’ingenuità disarmante. Alla scoperta della presenza di qualche sussidio, di associazioni di appoggio e di gruppi di immigrate pronte a sostenerle (come nel caso della struttura gestita a Torino da un gruppo di donne rumene, o le collaborazioni fiorite in Toscana tra comunità peruviana e Cav) eccole pronte a cambiare idea e a portare avanti quella gravidanza tanto temuta. Peccato che in tempi di crisi, quegli stessi sussidi stiano pericolosamente venendo meno. Spingendo le straniere a scelte sempre più frettolose. Tra le più diffuse, quelle dei farmaci clandestini: pillole vendute online a basso prezzo per curare gastriti e ulcere e che assunte in caso di gravidanza provocano contrazioni uterine che espellono il feto, causando un aborto spontaneo con una buona percentuale di successo, ma anche con tanti possibili effetti indesiderati per la donna, molti dei quali fatali. La pratica sarebbe in uso soprattutto nelle comunità cinesi e indiana, dove peraltro starebbe prendendo piede un fenomeno altrettanto inquietante:quello degli aborti selettivi. La scelta, vale a dire, di eliminare il figlio nel caso si venga a scoprire che è femmina: eventualità “punita”, nei clan di provenienza proprio come nei Paesi d’origine, con violenze e soprusi.
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