sabato 19 dicembre 2015
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LEGGI L'INCHIESTA DI LUCIA CAPUZZI SULLE BANDE DI LATINOS DI MILANO

«Mi ero già addormentato quando sono arrivati. Volevo essere riposato per il mio compleanno. Avevo organizzato tutto: la mattina sarei andato a scuola, l’avevo appena ripresa, e la sera l’avrei trascorsa con i compagni. Invece, ho compiuto 18 anni in prigione». Eduardo - il nome è di fantasia come per tutte le altre persone citate per ragioni di sicurezza - scruta l’interlocutore con i grandi occhi nocciola. Non sembra nervoso ma di sicuro lo è. Qualche volta butta là una battuta per smorzare la tensione e sorride. Preferisce parlare in italiano, con forte accento lombardo: del resto è cresciuto qui. A nove anni è arrivato insieme alla mamma dal Perù. Del padre, rimasto là, non ha più saputo nulla. A farne le veci, il "capo" - El Jefe, lo chiamavano - che, per quattro anni, è stato il suo punto di riferimento. In pratica, Eduardo è stato allevato in una gang. «Quando sono entrato ero quasi un bambino». Da qui il nome "pulga", pulce o p, la stessa iniziale incisa sul braccio sinistro. Di tatuaggi ne ha fatti vari. Probabilmente per cercare di nascondere, ai tempi della banda, l’aria da ragazzino che, però, gli è rimasta. Ha cominciato a frequentare i gruppi di strada a 13 anni nel suo quartiere, alla periferia ovest della città. Non proprio una banda, anche se cercavano di scopiazzarne lo stile. Il "suo" esordio è avvenuto alla fermata del tram. Un ragazzo si è rivolto in modo sgarbato a un esponente del gruppo e hanno iniziato a battibeccare. «Avrà avuto vent’anni ed era alto. Era accanto a una panchina. Mi ci sono appoggiato sopra e gli ho dato un pugno». Grazie al "gesto audace", Eduardo è stato accettato nella "comitiva". Ben presto, il gruppo ha cominciato a stargli stretto. «Erano ragazzini..». Nel quartiere, invece, aveva incontrato, più volte, dei pandilleros veri. Quelli a cui devi cedere il posto quando li incontri al parco. E al Matiné non fanno la fila per entrare. Quelli che si nascondono dietro un nome ben conosciuto - MS - e il cui capo millanta contatti con le vere maras in Salvador. «Ho iniziato ad avvicinarli e, dopo qualche mese, sono uscito dal mio gruppo. Ci ho messo un altro bel po’ per convincerli a prendermi con loro». È stato El Jefe ad arruolarlo, anzi ad "adottarlo" come protetto. «Per questo, il mio pestaggio iniziale è stato leggero: ti menano per 13 secondi. Non sono secondi veri, però. Il capo scandisce il ritmo: può farlo durare anche un quarto d’ora. Il mio è finito subito. Prima del mirin, la riunione obbligatoria, il capo si consulta con i suoi fedelissimi. Solo loro potevano discutere sulle decisioni che poi venivano esposte nell’incontro successivo. A me, però, permetteva di partecipare. E, a volte, mi faceva anche portare il machete». I coltellacci venivano acquistati legalmente al centro commerciale. «Ognuno costa 30 euro. Facevamo una colletta per prenderli. E poi El Jefe sceglieva a chi distribuirli. Lo tenevo qui – afferma il ragazzo indicando la coscia destra – non era scomodo». I soldi per i machete, l’alcol - consumato in abbondanza -, qualche "canna" e la pistola di El Jefe li racimolavano con i furti. «Telefonini soprattutto. Con uno smartphone non bloccato ci fai anche 250 euro». Lo sapevano anche le autorità che da tempo avevano cominciato a tenerli d’occhio e ad intercettarli. «Noi parlavamo di tutto al telefono: le risse, i furti… Pensavamo di essere molto furbi e abbiamo continuato a crederlo anche quando, da un certo punto, non ce n’è andata bene più una: ogni volta che stavamo per fare qualcosa, arrivava la polizia».

Eduardo è stato arrestato poco dopo: in quanto minore ha trascorso un periodo al Beccaria e, poi, in comunità alla cooperativa sociale Arimo. «Là ho iniziato a capire. Mi hanno fatto fare il volontariato in una mensa per senza tetto. Mi piaceva quando mi riconoscevano e mi chiamavano per nome. Mi sentivo qualcuno, anche senza banda. Ho cominciato a capire che la vita vera è altro. Ero vissuto come in una bolla… Così, quando ho finito, ho detto a El Jefe che volevo lasciare. In teoria non si potrebbe, ma lui ormai mi era affezionato e mi aveva dato il permesso. E, così, sono tornato a scuola…». Poi il secondo arresto, per il 18esimo compleanno, e la messa alla prova: in caso di delitti compiuti da minori, al ragazzo viene offerta l’opportunità di sospendere la pena in cambio di un percorso di recupero con verifiche a cadenza periodica. Eduardo è stato accompagnato di nuovo da Arimo, con il progetto "Chiavi di casa". «Ho continuato a lavorare nella mensa per i senza tetto e mi sono diplomato. Il mio obiettivo è lavorare nel sociale. È bello vedere la gratitudine nello sguardo dell’altra persona. Ti fa sentire bene, in pace. Altro che la banda. Non c’è niente di eccitante: è tutto finto. Come il soprannome che usi "dentro". E, alla fine, finisci in carcere. Solo. Nessuno dei tuoi hermanos si ricorderà di te. Ti usano e ti gettano via».

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