mercoledì 16 settembre 2015
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«Ora al porto, quando arrivano altre persone, ci siamo noi, abbiamo lo stesso colore della pelle e diciamo: tranquilli, non ci sono più problemi, ormai siete qui. E loro ci credono». Quel 'noi' significa Tommaso, Pietro, Fatima, Mimmo, giovani migranti arrivati a Palermo oltre un anno fa, felici di aver conquistato un nome italiano, di sentirsi un po’ palermitani anche loro, ma soprattutto di rendersi utili, di fare con le migliaia di altri uomini e donne scappati dai loro Paesi ciò che qualcun altro ha fatto con loro.  Il miracolo dell’accoglienza a Palermo ha anche il loro volto luminoso e sorridente di quando chiamano 'papà Sergio' il direttore della Caritas diocesana, che li ha ospitati nei locali della parrocchia che lui guida nella periferia della città. In 21oggi vivono tra la parrocchia di San Giovanni Maria Vianney di Falsomiele e la fattoria solidale di Ciminna, gestita dalla Caritas, dove lavorano i campi e producono ortaggi. Tommaso-Iamik sale e scende dalle scale della chiesa come chi si trova a proprio agio, a casa sua. È un fiume in piena quando racconta del suo tormentato viaggio, della traversata in mare, della paura di non farcela. In un anno e tre mesi ha imparato bene l’italiano e anche il siciliano per la verità. Cattolico della Costa d’Avorio, porta sempre un rosario colorato al collo. «Frequentavo il primo anno di Scienze matematiche all’Università, ma con la guerra del 2010 sono stato costretto ad andare nell’esercito – racconta –. Ho visto troppa violenza, ho visto morire i miei amici, i miei superiori e sono scappato. Ma dovunque andassi, in Ghana, in Mali, sapevo che potevano venire a cercarmi».  Nel 2011 arrivò in Libia, imparò a fare il gommista, «pensavo solo a guadagnare soldi da mandare a casa, ma mi resi conto che era difficile che arrivassero alla mia famiglia. Era necessario andare via, in Europa, ma non riuscivo a trovare chi mi facesse partire. Due settimane per trovare la persona giusta, ho pagato l’equivalente di 900 euro e da quel momento sono stato prigioniero in uno stanzone assieme a 300 persone per 15 giorni, senza poter uscire neppure per i bisogni. Poi una notte, col capo basso, senza poter vedere né la strada né coloro che ci accompagnavano verso il mare, siamo saliti su un gommone, senza portare niente, neanche l’acqua, neanche le scarpe». Due giorni di navigazione e di terrore, in tanti, ammassati, poi l’avvistamento di una nave italiana e la salvezza. «Quando siamo saliti su quella nave dove ci hanno dato tutto, acqua, cibo, assistenza, un ragazzo del Mali che era con me ha detto: 'siamo in Italia'. Gli ho risposto che era pazzo, che eravamo ancora in mezzo al mare e non sapevamo dove ci avrebbero portato. E lui: 'fidati, ormai non può succedere più niente'». Poi lo sbarco a Palermo, il 15 giugno 2014: «Ho visto sulla banchina un prete, non sapevo chi fosse, mi sono avvicinato, gli ho detto che ero cattolico, da dove venivo. E ci ha portato in parrocchia. È stato la mia salvezza, papà Sergio (Mattaliano, ndr) è una persona molto semplice, ride con tutti, è il primo a fare il lavoro».  Con Tommaso c’è Pietro (anche questo nome acquisito in Italia), 23 anni del Mali, «ho passato l’inferno con lui e siamo diventati fratelli. Per cinque mesi sono stato in prigione in Libia. Non c’era giorno che non venissi picchiato. Mi buttavano addosso anche l’acqua bollente». Con loro Mimmo-Sow, 30 anni del Senegal, che sa andare a cavallo, fare il meccanico e coltivare la terra. E tra non molto in questa particolare comunità di volontari migranti arriverà una nuova vita: la porta in grembo Fatima, 29 anni, senegalese arrivata a Palermo nell’agosto 2014 e diventata una delle cuoche del centro San Carlo della Caritas. Qui ha incontrato un connazionale che ha sposato. Questo, per lei, è il primo matrimonio d’amore, Ne ha alle spalle altri tre, nozze forzate, a cominciare dai 14 anni, poi la fuga. «Sono musulmana, ma vedo che i musulmani in Libia hanno fatto tanto male, qui tra i cristiani invece ho ricevuto tanto bene». 
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