giovedì 23 luglio 2015
L'ombra dello schiavismo sulla morte del 47enne sudanese, stroncato dal caldo in un campo di pomodori tra Nardò e Avetrana. Le denunce della Caritas. Indagate tre persone.
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Tra l’una e le quattro del pomeriggio, il sole picchia come un maglio. Le strade di Nardò si svuotano e tutte le attività si fermano. Tutte tranne la raccolta delle angurie e dei pomodori. Ed è proprio in un campo di pomodori tra Nardò (Lecce) e Avetrana ( Taranto) che lunedì pomeriggio ha perso la vita Abdullah Mohamed, 47enne di origine sudanese.  Quel giorno, il termometro sfiorava i 42 gradi. Tre persone (i due titolari dell’azienda agricola e il caporale) sono stati iscritti nel registro degli indagati della Procura di Lecce con l’accusa di omicidio colposo. Sarà l’autopsia a stabilire se l’uomo sia morto per le durissime condizioni di lavoro o se per colpa di una patologia preesistente. Quel che è certo è che la morte di Mohamed è avvenuta in un contesto di grave e sfruttamento che la Caritas e altre organizzazioni locali denunciano – inascoltate – da anni. Anche quest’estate, circa 300 cittadini stranieri hanno raggiunto la piccola città del Salento per lavorare nei campi: ad accoglierli, hanno trovato il rudere fatiscente dell’ex Falegnameria senza acqua potabile, né elettricità, né bagni. Dai primi di giugno e fino al 15 luglio è stata la Caritas di Nardò a rifornire d’acqua i lavoratori dell’ex Falegnameria: cisterne con cui riempire le taniche per lavarsi, bottiglie d’acqua minerale per dissetarsi. La tendopoli dotata di bagni e docce, promessa dal Comune di Nardò per il 1° di giugno, è stata aperta, in ritardo, solo il 16 luglio. «La raccolta delle angurie è iniziata da un pezzo – racconta Gregorio Marnieri operatore della Caritas diocesana di Nardò, impegnata dallo scorso anno nel progetto “Presidio” promosso da Caritas Italiana –. Inoltre la tendopoli non viene gestita. Capita così che alcuni ragazzi escano al mattino per andare a lavorare nei campi e, alla sera, trovino il loro posto occupato da altri». Perché laddove le istituzioni fanno finta di nulla, avanza la sopraffazione e la legge del più forte. Le condizioni di lavoro sono durissime: «Queste persone vengono sottoposte a pesanti sforzi fisici per 12-13 ore di fila, sotto il sole cocente», denuncia la Flai-Cgil di Lecce. Il tutto per paghe da fame: secondo quanto ricostruito dai carabinieri, Mohamed sarebbe morto per una paga tra i sei e i sette euro l’ora. Una cifra cui però bisogna togliere la quota per il caporale, il costo del trasporto fino ai campi, il prezzo del panino e della bottiglietta d’acqua per il pranzo. «È probabile che in tasca gli siano rimasti poco più di due euro per ogni ora di lavoro», riflette Manieri. Altissimo, poi, il tasso di illegalità: quasi inesistenti i contratti di lavoro veri, molto lavoro nero o contratti fittizi. I più fortunati hanno un documento in cui si registrano due o tre giornate di lavoro a fronte di un impegno di più settimane.  Ad aggravare la situazione, la mancanza di un presidio medico che, lo scorso anno, era assicurato da Emergency. Anche in questo caso, è la Caritas a intervenire sull’emergenza, con un gruppo di medici volontari (dermatologo, otorino, ortopedico e medico generico) che ogni sera si recano nei campi e all’ex Falegnameria per visitare i lavoratori. Tra i braccianti di Nardò, molti sono immigrati che vivono in Italia da diversi anni: vittime della crisi economica, hanno perso il lavoro nelle fabbriche del Nord e cercano un magro stipendio nelle campagne del Mezzogiorno. Altri sono rifugiati politici provenienti dal Gambia o dal Sudan.
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