martedì 17 febbraio 2015
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Fuggono siriani, libici, nordafricani; fuggono cristiani e centrafricani, diplomatici e italiani. Per la maggior parte, dalla polveriera Libia, fuggono disperati. Tripoli è nel caos. È affollata da "merce preziosa" per gli uomini del terrore. Perché i disperati pagano le "traversate" verso l’Europa con tutto quello che hanno. È denaro che arricchisce gli scafisti senza scrupoli. Che, non a caso, godono come non mai del "business" della tratta. E che, per questo, minacciano armi in pugno persino la Guardia costiera italiana al fine di riappropriarsi dei barconi utilizzati dai poveri migranti. Quei barconi servono. Perché l’ondata migratoria è inarrestabile. «Siamo pronti ad aiutarvi», dice la Commissione europea all’Italia. Su richiesta «anche con misure di emergenza». L’esecutivo di Bruxelles vuole comunque passare da una soluzione politica per la Libia e da un approccio all’immigrazione più organico che coinvolga tutti i Paesi dell’Ue. Frasi, per la verità, già sentite. Che non possono di certo sorprendere l’ambasciatore libico a Roma Ahmed Safar, che rappresenta il governo di Tobruk, riconosciuto dalla comunità internazionale. «L’Ue non ha mantenuto i suoi impegni per quanto riguarda le attività di contrasto all’immigrazione clandestina», dichiara. Il risultato è che «Italia e Libia non sono in grado di affrontare l’emergenza». Per il diplomatico, l’intervento di una forza di «peacekeeping non è la soluzione» per risolvere la crisi. Serve «un processo politico» tra le parti in conflitto «sotto l’egida internazionale» che «per sua natura è in contrasto con la soluzione armata... Non dimentichiamo – conclude – cosa è successo in Iraq e Afghanistan e anche nella stessa Libia dopo l’intervento internazionale. Bombardare è facile, ma bisogna pensare anche alle conseguenze di tutto ciò». Una posizione non distante dai vertici degli organismi impegnati ad accogliere i profughi. «L’arrivo dell’Is a Sirte è una ragione in più per un progetto internazionale di presidio del Mediterraneo e di accompagnamento – spiega a Radio Vaticana monsignor Gian Carlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes della Cei –, proprio perché c’è un ulteriore aspetto non solo di soccorso alle persone, ma anche di tutela da parte di tutta la comunità internazionale da possibili infiltrazioni». In questo senso, è auspicabile «un’operazione come Mare Nostrum, e che veda il coinvolgimento non solo delle forze europee ma anche di quelle internazionali», aggiunge Perego. Che risponde così a chi ipotizza di bloccare gli sbarchi: «Dire ad una persona: "Ti abbandono a morire", è una frase che non si può neanche pensare. Dimostra l’inciviltà a cui tante volte la paura e l’ideologia porta nel considerare il dramma di tante persone». Eppure, «basterebbe che l’Europa aumentasse adeguatamente le quote dei re-insediamenti dei rifugiati provenienti da tre Paesi (Siria, Eritrea, Somalia) per ridurre sostanzialmente il business dei trafficanti di morte e le morti stesse», chiarisce il presidente di Focsiv (Federazione organismi cristiani servizio internazionale volontario), Gianfranco Cattai, per il quale tornare a Mare Nostrum potrebbe non bastare perché è necessario lavorare sulle condizioni dei Paesi di origine e aprire procedure di identificazione e asilo già nei campi profughi, gestite dall’Onu prima che inizino le traversate del deserto e del mare. «Il problema è politico – incalza Cattai –, le classi dirigenti europee sono sorde alla voce dei poveri, che è chiamata a diventare "ruggito". Le nostre democrazie sono addormentate e inebetite dall’indifferenza, anche se qualche rigurgito di cambiamento si intravede».
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