martedì 27 settembre 2016
​Nel più grande campo profughi d'Europa, dove 11 mila persone sperano di arrivare in Gran Bretagna. Il 43% è sudanese, i minori soli sono oltre mille. Gilberto Matromatteo
Calais, voci dalla «giungla»: un muro non ci ferma
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«Siamo arrivati fin qui sfidando tutto. Non sarà certo un altro muro a ostacolarci». Saif Alagab viene da Khartoum e ha 19 anni. Nella jungle, la 'giungla', di Calais è arrivato due mesi fa. Prova a lanciare lo sguardo oltre la rete di metallo, dove un capannello di operai sta gettando le fondamenta del Great Wall, il 'grande muro', che dovrà arginare i migranti come lui dal proposito di attraversare la Manica. 

 All’annuncio di inizio settembre sono seguiti i fatti. Dalla scorsa settimana, bulldozer e betoniere sono a lavoro ai lati dell’autostrada A16. Quella che conduce i tir all’imbarco dei traghetti per Dover, in Gran Bretagna. Entro la fine dell’anno il muro sarà completato. Una doppia barriera in calcestruzzo, alta 4 metri e lunga un chilometro, interamente finanziata dal Regno Unito. Costerà quasi due milioni di sterline. «Perché non vogliono aprirci la porta?» si domanda Saif. Lui, come molti altri nella 'giungla', i documenti li ha ottenuti in Italia. «Sono sbarcato a Reggio Calabria – racconta in un italiano stentato, mentre mostra la carta d’identità con lo stemma della Repubblica – ho vissuto poi a Crotone, per un anno. Sarei rimasto volentieri da voi, ma in Italia non c’è lavoro». Oggi dimora con altri sei connazionali  in una capanna che potrebbe contenere al massimo quattro persone. HOLLANDE IN VISITA: CONFERMATO LO SMANTELLAMENTO DEL CAMPOLa 'giungla' esplode. L’ultimo censimento, condotto congiuntamente dalle Ong 'Help Refugees' e 'Auberge des migrants', rivela che gli abitanti dell’accampamento sono ormai 11mila. I sudanesi sono la maggior parte, oltre il 43 per cento. Poi ci sono gli afghani, che da soli popolano un terzo del campo. Infine un 9 per cento di eritrei, un 7 per cento di pakistani e, con percentuali minori, etìopi, iracheni, siriani e curdi. «Non tutti vogliono andare in Gran Bretagna – osserva Anneliese Coury, che coordina il progetto Calais per Medici senza Frontiere – ma se fanno richiesta di asilo in Francia ora, otterranno una risposta solo a dicembre. Una situazione che crea tensione e preoccupazione. Specie nei casi più vulnerabili». 

In questo momento sono 1.179 i minorenni presenti nel campo, 1.022 dei quali sono non accompagnati.  Le donne sono oltre 400 e alloggiano in un’area recintata, nella parte nord-ovest della jungle. Poi c’è la conta dei morti. Uno stillicidio. L’ultimo sabato scorso. Un uomo sudanese di trent’anni, trascinato dal treno cui si era aggrappato nell’intento di varcare l’Eurotunnel. Due settimane fa era toccato ad un ragazzo. Aveva 15 anni e veniva da Jalalabad, in Afghanistan.  Dal 2015, i morti sono ormai 40. «Molti soffrono di crisi depressive e disturbi post-traumatici – racconta Aurore, giovane psicologa di Medici senza Frontiere – spesso crollano per l’attesa e per i pericoli che devono affrontare ».

«La situazione sta peggiorando di giorno in giorno – dice padre Johannes Maertens, monaco benedettino belga, che da quasi un anno opera nel campo, assieme ai volontari del Secours Catholique–. C’è ansia e preoccupazione. Queste persone avrebbero bisogno di un aiuto fattivo, non di un muro o della minaccia di un’evacuazione forzata». Il riferimento è alle parole del premier François Hollande, che ha ribadito il piano di sgombero. Nei giorni scorsi era stato Didier Degrémont, il presidente della Caritas francese nel Nord Pas De Calais, a scagliarsi contro la barriera: «Una vergogna – lo aveva definito – che nega l’esistenza di queste persone, da mesi presenti sul territorio. Manca una politica europea e internazionale che si prenda carico della crisi migratoria». La tensione è oramai tangibile, anche tra gli autotrasportatori che percorrono l’autostrada verso il porto di Calais.

A circa 3 chilometri dalla jungle, un’area di servizio della Total è uno dei luoghi più monitorati dalle forze dell’ordine francesi. «I migranti si nascondono qua dentro, durante la notte – racconta il camionista greco Stratis Stefanidis, mentre apre il tendone del suo tir –. Ormai non scendiamo più dalla motrice. Abbiamo paura di essere aggrediti». È quanto accaduto a Thomas Merousis, anche lui greco. Venticinque anni trascorsi a trasportare ortaggi tra Salonicco e Manchester. «Una notte – racconta – appena sceso dal tir, ho trovato un ragazzo che mi puntava un coltello. Per non parlare di quando troviamo barricate in autostrada». Tronchi dati alle fiamme e gettati sul manto stradale, per bloccare i veicoli e agevolare l’opera degli smuggler. «Il compito dei trafficanti è quello di aprire i tir – racconta Faysal Rohallah, uno dei ragazzi afghani che ogni notte tentano di strappare un biglietto di sola andata per Dover –: chiedono dai 300 ai 600 euro a persona. E per farlo, sono disposti a tutto».

All’inizio del mese, una manifestazione di autotrasportatori ha bloccato per varie ore l’A16. «Li capisco – dice Faysal – ma la nostra è una guerra tra poveri. Siamo vittime, noi come i camionisti, di un sistema che non funziona».
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