venerdì 15 aprile 2016
​Al porto di Dikili, dove chi torna dalla Grecia si mischia a chi sogna di partire
La città turca che dice «no» ai respingimenti
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Nella stanza al piano terra dormono in sette. «Poi c’è un’altra famiglia di Damasco al piano superiore » spiega Said Ahmad, mentre si accinge a preparare il tè. Viene da Hama, in Siria faceva il barbiere. In Turchia è arrivato due mesi fa. Prima a Izmir, poi a Dikili. Vive in una casa rurale, presa in affitto con altre famiglie, nella campagna fitta di uliveti, appena fuori città. Attende il momento buono. «Devo attraversare il mare – spiega – giungere dall’altra parte, a Lesbo, in Europa. Ormai ci state chiudendo ogni porta d’ingresso. Ci sono famiglie tagliate a metà. Io ho un fratello già a Stoccarda, l’altro a Idomeni. E io sono bloccato qua. Che colpa abbiamo?». Dello scorso 4 aprile, il primo giorno dei rientri operati dal Frontex, ricorda i volti. «Erano pachistani soprattutto – dice – sembravano spaesati e avviliti. Il momento in cui ho incrociato i loro sguardi è stato il peggiore da quando mi sono messo in viaggio». Le partenze dalla Turchia non si arrestano. Negli ultimi tre giorni sono stati 122 i migranti che hanno tentato di dirigersi sulle coste di Lesbo. L’ultimo gommone è salpato all’alba di ieri. «A bordo erano in 63 – spiega un sottufficiale, facendo capolino dagli uffici della Guardia costiera turca, al porto di Dikili – tre sono curdi iracheni, tre palestinesi, il resto siriani. Li abbiamo avvistati poco dopo le 6 al largo della baia. E li abbiamo riportati a terra». Dikili, ormai, fa rima con respingimenti. Da città turistica, a pochi chilometri da Pergamo, è diventata il simbolo dell’accordo tra Unione europea e Turchia, in materia di immigrazione. Una situazione che sta creando un vespaio di polemiche a livello locale. A sbattere il pugno sul tavolo, la scorsa settimana è stato il sindaco del Chp, il repubblicano kemalista Mustafa Tosun. «Erdogan ha intenzione di fiaccare le municipalità dove più forte è l’opposizione – spiega –. Dikili ne è un esempio. La cattiva immagine che si sta guadagnando la città avrà ripercussioni sulla sua gestione». Del centro che dovrebbe sorgere accanto al porto, per il rilevamento delle impronte digitali dei migranti respinti, per ora c’è solo un’ipotesi e un’area recintata. Al suo interno, ancora nessuna infrastruttura. «La cittadinanza si sta opponendo alla sua realizzazione» spiega Ismail Hakki Ortakoy, presidente del partito Libertà e Solidarietà (Odp) per la provincia di Izmir. Lunedì scorso l’Odp ha dato vita ad una manifestazione contro i respingimenti, nella centrale piazza Ataturk della cittadina portuale. «Noi stiamo con i rifugiati – dice anche Onur Kilic, portavoce della Commissione migranti, all’interno della segreteria centrale del partito – l’Akp di Erdogan ha deciso di trasformare la Turchia in una prigione, in cambio dei 6 miliardi di euro che l’Unione europea gli ha concesso. È un accordo triste e vergognoso, da ambo le parti. Noi diciamo no ai respingimenti e ai nuovi centri di identificazione». Oltre a quello previsto a Dikili, un’altra struttura dovrà sorgere a Cesme, la località balneare di Izmir, posta proprio dirimpetto all’isola greca di Chio. Un piccolo ufficio, nei pressi del porto di Ulusoy. «Ma non sarà un campo profughi – si affretta a spiegare il sindaco di Cesme, Muhittin Dalgic –. I migranti verranno solo identificati e subito trasferiti ad altre sedi». Quelli respinti il 4 e l’8 aprile scorsi, sono stati portati al centro attrezzato di Kirklareli, nel nord-ovest della Turchia, a poca distanza dal duplice confine con la Grecia e la Bulgaria. «Li stanno identificando – dice Said – poi li riporteranno nei Paesi d’origine. Soldi, speranze, progetti: tutto in fumo. Ma almeno sono vivi». Quelli che non ce l’hanno fatta sono allineati nei cimiteri della zona. A Dikili ce n’è qualcuno, la maggior parte sono a Smirne, nel campo di Dogancay. Qui sono oltre 400 i migranti sepolti, 146 dei quali non hanno ancora un nome. «Qualche giorno fa hanno riconosciuto una donna siriana – racconta Said – si chiamava Salah Souad Farran, era un avvocato a Damasco, aveva 40 anni e 4 figli, uno dei quali già arrivato in Germania. Tentava di raggiungerlo, ma è annegata nel naufragio del 5 gennaio, al largo di Dikili, assieme ad altre 30 persone. La sua famiglia è venuta a Smirne, l’hanno identificata. Ora, per lo meno, avranno un corpo su cui piangere».
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