mercoledì 22 aprile 2015
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Da arruolatore di giovanissimi militanti di un gruppo fondamentalista islamico in Pakistan ad apprendista chef a Roma. Passando per la Libia, quattro giorni in barcone vedendo morire 15 compagni, per sbarcare poi a Pozzallo il 9 agosto 2013. È la storia, di violenza e speranza, di Faheem Hussain, 28 anni, gli ultimi tre da profugo. Ma al quale è stata respinta la domanda di rifugiato. Viene da Rawlakot, un paese del Kashmir a 2.000 metri. Mingherlino, gentile e timido, ha le idee molto chiare sul suo futuro e della sua terra. «In Kashmir la situazione non è cambiata. Lì ci sentiamo servi, occupati da Pakistan e India. Non siamo liberi». Conosce la vicenda di Asia Bibi: «Vogliamo vivere liberi a prescindere dalla religione, come da voi». In Italia, assicura, «sto bene. Sento la mancanza di casa ma qui ho incontrato le persone giuste». Fino a pochi mesi fa ha vissuto a "Casa benvenuto" il centro per richiedenti asilo gestito dalle associazioni "In Migrazione" e Acisel, ed è proprio grazie ai volontari che ora segue con profitto il corso dell’associazione "A tavola con lo chef" che ospita allievi inviati anche dalla Caritas e da alcune case famiglia. «È talmente interessato – dice Simone Andreotti, presidente di "In Migrazione"– che dopo le lezioni del mattino resta il pomeriggio per fare il bis. Cucina come integrazione: accettare una cucina diversa vuol dire accettare un nuovo senso di sé, aprisi all’Italia ma valorizzando anche la propria cultura». «Tutti mi aiutano, mi incoraggiano. Mi piace molto la pasta ma cucino meglio le verdure – spiega Faheem –. A casa non cucinavo ma aiutavo mamma. Qua mi piace perché si è liberi di fare quello che si desidera». Nel frattempo lavora con una ditta di pulizie ed è in attesa del ricorso dopo il diniego alla domanda di asilo. Anche per questo è molto prudente. Quando viene al corso dovrebbe portarsi il set di coltelli da cucina ma era terrorizzato che lo fermasse la polizia. Così gli hanno permesso di lasciarli qui. Ora ha il tesserino della Federazione cuochi.Come è lontana la sua dura esperienza in Kashmir. «Dopo la scuola media – ricorda – i gruppi religiosi fondamentalisti fanno proselitismo. Così io a 16 anni sono entrato nel Lashkare Tayba. Ho avuto un addestramento militare e poi sono stato scelto come arruolatore di ragazzi, anche di 12-13 anni. Due di loro sono poi morti in attentati in India. Per me era diventato un obbligo, non avevo scelta. Dicevano di combattere contro l’India ma poi i capi prendeva i soldi dei servizi segreti pakistani e mandavano i ragazzi a morire». Così nel 2007 scappa in Arabia Saudita ma dopo un anno e la morte del padre torna «per paura di ritorsione verso i miei due fratelli». Una sera quelli del gruppo lo portano in un bosco e lo pestano a sangue. «Allora tutti hanno insistito perché partissi». Paga 550mila rupie, 5mila euro, e con documenti falsi prende l’aereo per la Libia. Qui resta un anno e mezzo studiando e lavorando come infermiere. E arriva il momento del viaggio in mare, pagato 3mila euro. «Ma prima di partire ci hanno tenuti nascosti per due giorni in cinquanta in una buca coperta da un telo e sabbia. Alcuni svenivano. Non avevo mai visto il mare. Sul barcone eravamo in 126, siamo arrivati a Pozzallo in 111. Alcuni ragazzi si buttavano in mare pensando di vedere la terra e affogavano. Stavamo andando dalla parte sbagliata, verso la Turchia, tante navi ci vedevano ma non si fermavano. Poi ne è arrivata una grande inviata dagli italiani e ci siamo salvati».
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