mercoledì 1 aprile 2015
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C’è da non dormire la notte, pensando al destino di un figlio disabile. C’è l’angoscia, l’incapacità di elaborare piani e strategie. E poi c’è la quotidianità alle prese con l’autismo, il ritardo mentale e la non autosufficienza: c’è la fatica del giorno che tutto assorbe e tutto cancella. Fino alla notte successiva. Le associazioni che raggruppano i familiari di questi malati conoscono che battaglia si gioca sul campo del “dopo di noi”, perché ne vivono il “durante”: in Italia il problema tocca 3,2 milioni di case, coinvolgendo tra il doppio e il triplo della popolazione (madri, padri, fratelli o sorelle). E l’allarme sui disabili che vivono soli, perché sopravvissuti alle loro famiglie o abbandonati, è ancora più eclatante: 630mila ad oggi, di cui tra i 40 e i 60mila hanno meno di 64 anni, mentre la maggior parte (580mila) ha dai 65 anni in su. Secondo i calcoli dell’Istat potrebbero aggiungersi nel giro di un anno altre 2.300 persone. Altre 12.600 entro 5: un costante aumento che entro il 2019 toccherà la cifra di 13mila. «Eccoli qui i numeri dell’emergenza – esordisce il presidente della Fish (la Federazione italiana per il superamento dell’handicap), Vincenzo Falabella –. Ed ecco qui le ragioni per cui una legge sul “dopo di noi” è così indispensabile al nostro Paese, nella cornice della piena applicazione e del riconoscimento di due principi fondamentali: quello sancito dalla convenzione delle Nazione unite sui diritti delle persone con disabilità all’articolo 19, che stabilisce il loro diritto a vivere nella società con la stessa libertà di scelta delle altre persone, anche quando si tratta del luogo di residenza. E poi l’articolo 14 della legge 328/2000, secondo cui per le persone con disabilità è necessario predisporre progetti personalizzati». Il piano cartesiano è tracciato, dunque: ora sui due assi bisogna iniziare a costruire. Cominciando a garantire per legge quello che finora ai genitori di figli disabili è stato garantito solo dal mondo dell’associazionismo privato: «Strumenti giuridici che permettano loro, con anticipo e in tranquillità, di pianificare il futuro dei propri figli», aggiunge Falabella. Al centro della questione il superamento della vecchia “interdizione” (normativa molto più dispendiosa in termini di costi processuali e di costi esistenziali per la famiglia, che di fatto deve promuovere una causa contro il figlio) a favore della figura dell’amministratore di sostegno o del “trust”, secondo cui si dispone il mantenimento e la cura del figlio disabile attraverso una gestione professionale del patrimonio (di cui quest’ultimo diventa proprietario effettivo alla morte dei genitori). Ma c’è molto altro da fare. «Una questione essenziale per noi è la deistituzionalizzazione del problema – avverte Emilio Rota, presidente della Fondazione Dopo di noi Anffas –: lo Stato non può continuare a considerare i nostri figli disabili come semplici ammalati, da sistemare in strutture dove sia assicurato loro vitto e alloggio. Peraltro la crisi degli ultimi anni ha messo a nudo la debolezza di questa soluzione, visto che in queste stesse casecomunità da un numero di 10, massimo 12 persone (il limite affinché la vita e il progetto di ciascuno sia dignitosamente seguito) si prevede di dover salire anche fino a 40 ospiti». Che fare? Per l’Anffas la logica da premiare è quella delle “palestre dell’autonomia”, spazi in cui insegnare ai ragazzi a vivere insieme senza mamma e papà. Possono essere appartamenti presi in affitto, «oppure proprietà che vengono messe a disposizione dalle famiglie per questi progetti», continua Rota. All’attivo la Fondazione Dopo di noi ha già due esperienze di successo a Trieste e Ragusa: «Un educatore è il perno della vita nella “casa”, questo è ovvio, ma i disabili vengono gradualmente impegnati in un progetto che li avvia all’autonomia. L’aspetto fondamentale di queste microcomunità – continua Rota – è che a fronte di progetti personalizzati i costi sono estremamente contenuti ». Tutto il contrario delle strutture residenziali, dove a costi elevati si accompagna l’inevitabile standardizzazione dei percorsi. «Ci aspettiamo che con l’approvazione di questa legge si comincino a mettere a fuoco questi problemi: i fondi previsti dal governo sono importanti, ma non esauriscono affatto la complessità dei bisogni – conclude Rota –. Come limitarsi a parlare di “disabilità intellettiva” non fa giustizia alle infinite sfumature cui ci troviamo innanzi ogni giorno nell’accogliere le famiglie che hanno bisogno di appoggio».
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