giovedì 27 agosto 2015
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Filo spinato a perdita d’occhio, muri di rete metallica alta quattro metri, e poliziotti con i cani, a scovare i migranti, e gas lacrimogeni. Nel giorno in cui un’ennesima tragedia nel Mediterraneo fa altri cinquanta morti fra i migranti, la frontiera della Ungheria con la Serbia, cioè la frontiera dell’Europa lungo la 'rotta balcanica', accoglie così le migliaia di fuggitivi che arrivano dalla Grecia e mirano al Nord del continente. I video sul web mostrano i bambini fatti passare di braccia in braccia oltre il filo spinato, i passi sfiniti lungo i binari del treno, il sonno di piombo delle madri, per terra, abbracciate ai loro figli. Ma mentre la Serbia, che non è Europa – e forse perché la sua gente ricorda ancora, vicino, lo strazio della guerra – si mostra abbastanza umana con i fuggitivi, l’Ungheria di Orban sfodera una durezza che impressiona. Anche chi riesce a superare il filo spinato, in molti casi, non riceve nemmeno un po’ d’acqua. L’Ungheria, dal 2004, è Europa. Nella Ue profughi e rifugiati hanno diritto d’asilo in base alla Convenzione di Ginevra. La maggior parte di quanti marciano lungo i Balcani sono siriani, in fuga da una guerra che ha distrutto quel Paese, guerra ignorata, che non finisce mai. E, ad accoglierli, filo spinato, lacrimogeni, cani, addirittura ora si parla di esercito. Oltre alla pietà, un altro pensiero si affaccia in chi guarda: un malessere al confine tra la vergogna e una profonda inquietudine. Inquietudine non solo per i profughi, ma per noi. Per il volto che almeno una parte d’Europa – non l’Italia che, nonostante le parole cattive di alcuni, certe insufficienze organizzative e la fragilità di troppe regole, finora non ha dimenticato le sue radici cristiane – sta mostrando, alla prova pure drammatica di una migrazione epocale. Nessuno dice che il problema sia semplice da affrontare, e tuttavia sembra anche chiaro che un’inesorabile logica dei vasi comunicanti fa sì che da regioni devastate da una guerra infinita gli uomini migrino verso la pace; tanto più se, per giunta, in questa terra di pace una crisi demografica senza precedenti ha decimato i figli. Il nostro immalinconito Occidente deve sembrare un eden, ai siriani. Guardate come gridano 'Europa!', quando sbarcano a Kos. Credono che l’Europa sia la patria del diritto e della libertà. Quanto deve essere amaro, per chi viene da Aleppo, quel muro spinoso di cavalli di frisia, al confine dell’Ungheria.  Ma amaro è anche per noi. Siamo la generazione che ha ereditato da padri e nonni la memoria, ormai lontana, dell’ultima guerra, dello scontro formidabile fra totalitarismo e democrazia; siamo cresciuti dando per scontato che i diritti conquistati fossero per sempre – tanto che spesso nemmeno facciamo la fatica di andare a votare. L’immagine che noi, europei di seconda e terza generazione rispetto a chi ha combattuto, abbiamo di noi stessi è ancora fondata sulla commemorazione della Liberazione, su una naturale, ovvia adesione a ogni proclamazione dei diritti dell’uomo. Ora, le barriere di filo spinato contro i fuggitivi che si passano fra le braccia i bambini dovrebbero almeno interrogare anche noi. Anche questa è Unione europea.  E non mancano altri segnali: le aggressioni neonaziste ai campi profughi in una Germania che pure apre alla accoglienza ai siriani, e anche le drastiche misure britanniche: sei mesi di carcere, per chi lavora senza permesso di soggiorno. E i tafferugli a Calais, e le chiese di cartone innalzate dai profughi sulle rive della Manica, e quel migrante morto fulminato, perché in una stazione di Parigi cercava di arrampicarsi sul suo sogno, un treno per Londra.  Ci sono momenti in qui la cronaca sembra essere già storia, e certe foto di povera gente stremata dal confine serbo - ungherese sono uno di questi momenti. Ma non solo il loro bisogno ci interroga. Sono uomini e donne determinati, tenacemente desiderosi di vivere, e molti di loro, con fatica, forse ce la faranno. Un altro pensiero, oltre a questo drammatico esodo, ci inquieta ed è: noi, questa Europa, i diritti, l’umanità, ciò in cui diciamo di credere. Ci siamo anche noi in gioco, su quelle travagliate frontiere.
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