domenica 3 aprile 2016
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A Moelenbeek ieri è sceso in piazza l’estremismo xenofobo contro la comunità islamica e il sindaco del quartiere ha proposto di demolire la culla del jihadismo europeo per ricostruire tutto. Comunque vada, per provare a capire gli errori del passato nelle periferie del Belgio e nelle banlieue del cuore d’Europa e cambiare marcia per il futuro serve uno sguardo attento. Come quello di don Giancarlo Quadri, che sulla questione migranti e integrazione ha una lunga esperienza. L’impegno del sacerdote milanese, 72 anni, che dall’estate del 2014 è incaricato della pastorale per gli italiani a Bruxelles (almeno 70 mila in città, 350 mila in Belgio) è trascorso infatti tra l’Arcidiocesi di Milano (18 anni alla Pastorale dei migranti dalla metà degli anni 90, quelli del boom di arrivi), l’Africa e la Gran Bretagna. Alle spalle ha un lungo confronto con il mondo arabo e l’immigrazione nelle città europee se- colarizzate, dunque. Gli chiediamo a suo avviso cosa non ha funzionato negli ultimi anni nella capitale dell’Ue sconvolta dagli attentati. «Premetto che sono arrivato da neppure due anni – spiega –, ma la mia opinione è che sia mancato un intervento educativo con una visione lunga. Se faccio un paragone con la Milano degli anni del cardinale Martini, quello che si è fatto allora non esiste ancora in Belgio come nelle grandi nazioni coloniali europee che hanno subito il cammino storico dell’immigrazione dai Paesi islamici del Maghreb e dell’Asia. La tendenza comune è stata invece di considerare la convivenza come qualcosa di spontaneo. Purtroppo non è andata così». Cosa deve cambiare? Si tratta di agire dentro i processi di convivenza, di mettersi a lavorare in questi quartieri con progetti sociali ed educativi precisi, disposti a vederli fallire e poi a riprenderli. Dal punto di vista religioso non lo si dice, ma a mio avviso nel fallimento dell’untegrazione ha pesato molto anche il calo della pratica cristiana. Nel cattolico Belgio è uno spettacolo che a me fa male. In che senso? La partecipazione a messe e matrimoni è bassa, scesa attorno al 3%. E in Gran Bretagna, in tutto il Nordeuropa la situazione è simile. E anche questo ha pesato nella mancanza di modelli di convivenza. Vuole un esempio? Le leggo la dichiarazione scritta dalla 'Casa di Abramo' di Genk e condivisa da 'El Khalima', la realtà diocesana per il dialogo con i musulmani, che contiene una dichiarazione importante: 'Vogliamo impegnarci come autentici cristiani e musulmani per elaborare insieme modelli educativi interreligiosi e multiculturali per bambini e giovani delle comunità'. È quello che è mancato, il punto debole nelle nazioni del Nord: i modelli educativi. Si pensava che vivendo insieme le cose si sistemavano da sole. In una città multiculturale, multietnica, multireligiosa dove tutto è 'multi' sono mancati i progetti per integrare gli immigrati di fede islamica. Ma le parrocchie nei quartieri di Bruxelles cosa possono fare? Sono in crisi, si sa. A Schaerbeek ad esempio, altro quartiere multietnico, ci sono cinque grandi parrocchie. Oggi all’unica messa partecipano in media 30 fedeli per ogni chiesa, perlopiù anziani. Ma il nuovo arcivescovo De Kesel le sta riorganizzando in unità pastorali con tutte le fatiche del caso. Siamo agli inizi di un processo che fa ben sperare per il futuro perché vedo cristiani disposti a impegnarsi seriamente. Ci sono altri segnali di speranza ad esempio nelle comunità islamiche? Alcune madri dei combattenti in Siria e dei kamikaze si stano incontrando. Non ci sono ancora associazioni formali, ma tentivi di unirsi per condividere le esperienze e capire come mai questi ragazzi vivano così male il quartiere e rifiutino la vita. Tutto ciò nel cuore d’Europa. Del resto se Salah Abdelslam è riuscito a nascondersi a Bruxelles per mesi è perché la comunità di Moelenbeek lo copriva. Ma se non saranno le giovani madri e le spose a mettersi insieme sarà dura cambiare. La chiesa di Bruxelles farà la sua parte, va rispettata e aiutata. Ma poi la politica vera deve fare la sua parte sul lungo periodo.
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