martedì 17 maggio 2016
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Fallimenti adottivi. Non se ne parla quasi mai. Eppure, nei dibattiti sulla riforma della legge 184 e nei tentativi di ridisegnare una norma che sia più rispondente alle mutate esigenze dei bambini senza famiglia e delle coppie disposte ad accoglierli, non si dovrebbe tacere un tema così rilevante. Altrimenti si rischia di limitare il confronto a una serie di battute ideologiche pro o contro la stepchild. Il pianeta adozioni è invece molto più complesso e denso di sfumature. Ne sono consapevoli gli esperti del Centro di Ateneo studi e ricerche sulla famiglia e del Dipartimento di psicologia dell’Università Cattolica di Milano che nei giorni scorsi si sono confrontati con uno dei maggiori studiosi sull’argomento, Jesus Palacios, docente all’Università di Siviglia. L’occasione è stata offerta dalla presentazione di una ricerca da poco conclusa sui fallimenti adottivi. Ambito significativo perché, se da un lato i dati emersi hanno confermato tendenze già consolidate in analoghi studi realizzati in Olanda, Svezia e Inghilterra, d’altro canto sono state messe in luce situazioni di allarme che non possono essere ignorate. «I dati della ricerca spagnola – osserva Rosa Rosnati, docente di psicologia dell’adozione e dell’affido del Centro di ateneo studi e ricerche sulla famiglia – si riferiscono al periodo 2003-2012 e spiegano che i fallimenti riguardano il 2,09% delle adozioni nazionali durante il primo anno di affido preadottivo, il 2,13% per le adozioni nazionali definitive e lo 0,31% per le internazionali». Dato quest’ultimo poco significativo, perché non sempre in Spagna le adozioni internazionali che vanno incontro al fallimento vengono segnalate ai tribunali. Occorre precisare che la stragrande maggioranza delle adozioni ha un esito positivo e comunque che il fallimento adottivo è solo la punta di un disagio diffuso che passa attraverso vari gradi di difficoltà. A parte il fallimento vero e proprio, di cui sono investiti i tribunali, ci sono poi quelle situazioni in cui le famiglie arrivano a chiedere l’inserimento del figlio in una struttura residenziale. Ma anche momenti di crisi grave che non emergono, perché le famiglie provvedono a cercare aiuti attraverso canali non istituzionali. «Altro punto di grande interesse offertoci dalla ricerca spagnola – riprende Rosa Rosnati – riguarda i fattori che possono predire il fallimento. Il primo è l’età del minore. Oltre i 7 anni e mezzo il rischio è più sensibile, soprattutto se il bambino ha già vissuto a lungo in istituto ». Anche le adozione di due o più fratelli possono risultare complesse. «L’alleanza fraterna – evidenzia Rosa Rosnati – offre allo stesso tempo grandi opportunità ma può anche essere fonte di conflittualità. Altro punto preoccupante la scarsa propensione dei genitori a chiedere aiuto. Purtroppo – osserva la docente – succede anche da noi. Trascorso il primo anno dopo l’adozione la famiglia ritiene di aver ottenuto il proprio obiettivo e si chiude nel privato». Come intervenire? Un’idea potrebbe essere quella di allungare l’affido preadottivo a due anni. Ma anche di introdurre nella riforma un servizio di accompagnamento più efficiente per quanto riguarda il post-adozione. «Oggi – osserva ancora l’esperta – il compito tocca per il primo anno ai Servizi sociali. Alcune proposte vengono offerte dagli enti autorizzati, ma con costi a carico delle famiglie. Dobbiamo cercare altre strade». Tra gli altri problemi segnalati dalla ricerca, il rischio di rivolgersi a professionisti non preparati in modo specifico. Necessario quindi investire risorse sull’accompagnamento delle famiglie, sulla formazione dei professionisti e sui servizi specializzati.
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